l'alpinismo d'antan - i miei ricordi

Arrampicata e alpinismo su roccia in montagna

Messaggioda danielegr » ven feb 25, 2011 14:46 pm

Danilo ha scritto:Storiella assai curiosa quella del "cesso" ,mi ricorda una storia simile ma praticata una ventina di anni dopo il fatto della Val Sissone su una via di roccia rinomatissima......:lol:

Crispo e Tartaglione......presumo siano due cognomi....ma che fecero o meglio ancora,chi erano 'sti due? :wink:

Ho trovato casualmente qualche informazione sul solo Tartaglione: nel 1947 nel tentativo di traversata di cresta Punta Torelli-Punta S. Anna, Tartaglione volò a causa del distacco di un masso e rimase ferito gravemente. Il mitico Giulio Fiorelli, allora solo portatore e custode della Capanna Giannetti, con una impresa che non si può definire altro che eroica riusci a risalire (a piedi nudi: gli scarponi ferrati ostacolavano l'arrampicata) fino al ferito, caricarselo sulle spalle e con lui scendere fino alla Giannetti. Il resoconto di quel salvataggio al limite dell'umano, ma il Giulio non era solo un uomo, era un Superuomo e aveva una forza spaventosa, si può trovare qui alla pag 12
Non ho trovato informazioni sul fatto se poi il Tartaglione si sia salvato oppure, malgrado l'impresa di Fiorelli sia poi deceduto.
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Messaggioda Danilo » dom feb 27, 2011 15:47 pm

danielegr ha scritto:Frugando nel fondo dei cassetti ho ritrovato una foto che si riferisce a questo topic
Era la salita per la via Bonacossa al Cengalo, quella nella quale, arrivato in vetta, ho incominciato a star male e a rovinare il pranzo ai miei compagni. Ecco la foto:
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Purtroppo dei tre soggetti l'unico ancora vivo sono io: sono quello con quel ridicolo maglione a righe orizzontali: dietro di me Angelo M. morto di infarto una ventina di anni fa, quello sdraiato alla mia destra era il mio caro amico e compagno Roberto P., caduto sulla Tour Ronde.
Ma bando alle malinconie: osservate i miei calzettoni con quella riga a metà: erano due paia di calzettoni in parte rovinati e fusi insieme dalla mia mamma. Erano brutti, lo so, però coprivano anche il ginocchio, cosa che in montagna era utile. La foto era stata scattata da Vanni M., che era stato compagno di cordata di Angelo.




8O 8O

a vedere dalla foto,non sembrerebbe stessi così male....paglietta in bocca :lol: gli altri due piuttosto...sembrano messi peggio di te in fatto di stanchezza!


Il bricolage con i calzettoni ricordo che non li faceva solo la tua di mamma..

:smt006
il forum è morto
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Messaggioda danielegr » gio mar 03, 2011 16:59 pm

Una delle mie primissime salite è stata quella del Cevedale, sarà stato forse intorno al 1956: Wikipedia ricorda che la prima salita fu il 7 Settembre 1865 da parte di J. Payer, J. Pinggerra e J. Reinstadler. L'anticima minore era stata salita il 13 agosto 1864, da parte di E. Mojsisowicz e S.Janiger. Noi siamo saliti dalla Valle di Cedèc: Rifugio Pizzini e poi Rifugio Casati, dove avevamo pernottato e la mattina dopo salita al Cevedale. E' molto facile, e non meriterebbe nemmeno di essere raccontata, ma, incredibile ma vero, frugando nel fondo dei cassetti ho ritrovato alcune foto di quella salita. Mi fa particolarmente ridere quella in vetta, nella quale io (quello con la giacca a vento bianca) sembro un discepolo un po' discolo che il suo mentore (Franco, quello con la giacca nera) cerca di indirizzare verso la retta via...
Immagine
Ricordo che in quell'occasione avevamo ipotizzato di tornarci con gli sci: naturalmente non l'abbiamo più fatto. E' stato in quell'occasione che ho visto per la prima volta il ?mare di nubi? sotto di noi: una sensazione che qualsiasi alpinista conosce bene, e che è indescrivibile. Tornammo alla Casati: io avevo un feroce mal di testa, che mi passò solo dopo essermi fatto una dormita di qualche ora alla Casati stessa.
E' stata l'ultima volta che sono stato nella zona del Cevedale: dopo ho preferito dedicarmi alla roccia, che mi era più consona rispetto al ghiaccio. E poi avevo capito che oltre i tremila - tremila e cinquecento metri avevo dei problemi con il mal di montagna. Malgrado questo nel 1961 salii il Cervino, anche se questo mi costò un lungo digiuno, come ho già raccontato alcune pagine fa.
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Messaggioda danielegr » sab mar 12, 2011 18:56 pm

Ho sognato di essere un giovanotto che si è scoperta all'improvviso la passione per la montagna, e in particolare per la roccia. Sono quindi andato a vedere quanto avrei dovuto spendere per farmi un minimo di attrezzatura per soddisfare la mia passione, almeno per quelle cose che sono alla base della sicurezza, trascurando quindi abbigliamenti particolari e costosi. Mi aiuto con San Google, tramite il quale ho trovato http://www.freeclimbingonline.com/ e mi sono spaventato: un moschettone (o meglio, un ?rinvio?) da ? 8 a 8,50 bisognerà averne almeno 6 o 7, quindi una sessantina di Euro. un chiodo più o meno stessa cifra: un'altra sessantina di euro;
un set di 6 friends, oltre 200 euro, un altro set di nuts (11 per la precisione) quasi 70 euro. Un martello, una cinquantina di euro, un casco viene circa 40 euro, poco meno costa quell'aggeggio che viene usato (credo) per le corde doppie, più di 40 euro per una imbragatura.
E così siamo già arrivati a circa 320 euro, non ho considerato la corda, gli scarponi, le scarpe da arrampicata, lo zaino e tutto l'abbigliamento in generale. Si fa in fretta ad avvicinarsi a quello che è lo stipendio medio di un giovane impiegato: diciamo circa 800 euro al mese. Ma come diavolo fanno i ragazzi oggi ad avvicinarsi a quella meravigliosa attività (non voglio assolutamente usare la parola ?sport?) che è la Montagna?
Se non ricordo male quando arrampicavo io un chiodo costava 100 lire, un moschettone 200, un martello un migliaio, gli scarponi erano la spesa maggiore: circa diecimila lire, ma duravano per diversi anni, risuolature a parte. Un coefficiente di rivalutazione accettabile può essere intorno a 25, secondo la tabella che ho trovato qui http://www.cciaa.cremona.it/studi/rivalutazione.htm : quindi un moschettone pagato 200 lire allora oggi dovrebbe costare circa cinquemila lire, cioè 2 euro e mezzo. Per l'abbigliamento non ci facevamo problemi, una volta che avevi una giacca a vento per l'abbigliamento riuscivi bene o male a riciclare qualche indumento vecchio. I pantaloni, per esempio, spesso erano dei vecchi pantaloni di città: veniva tagliata la parte bassa e poi con un elastico poco sotto al ginocchio diventavano alla zuava. La parte tagliata prima era ottima per rinforzare con toppe quei punti che erano troppo consumati e che avevano determinato l'abbandono di quei pantaloni. Una volta qualcuno mi aveva regalato dei pantaloni da cavallerizzo: li ho usati un po', andavano anche bene ma non resistettero a lungo: l'usura provocata dalle corde doppie li aveva resi inservibili.
I maglioni spesso venivano confezionati dalle mamme, ma qui c'era un problema: la lana normale non era la più indicata per la montagna: bisognava trovarne un tipo (non ricordo il nome) che era un po' pelosetta e aveva un discreto grado di impermeabilità. Poi bisognava convincere la mamma a farti il maglione con i ferri: quel tipo di lana pungeva un po' e non era facile da lavorare.
Per il materiale più prettamente alpinistico (chiodi e moschettoni: non conoscevamo friends, nuts e simili) si stava attentissimi a non lasciare chiodi in parete e a recuperare quelli lasciati da altre cordate e che venivano giudicati non indispensabili per la normale sicurezza. E poi c'era anche un altro ?trucchetto?: in certe zone era facile trovare dei chiodi o moschettoni caduti a qualche cordata. Ricordo, ad esempio, in Grigna in un canaletto sotto al Clerici. Lì andavi a colpo sicuro, qualcosa trovavi sempre: bastava esaminare il chiodo o moschettone caduto che non presentassero vistose tracce di ruggine, poi battendoli sulla roccia si ascoltava il suono, se era argentino il reperto entrava subito a far parte della nostra dotazione di ferraglia. Un altro punto discreto era sotto l'Angelina, quando qualche cordata ripeteva la via ?Mary?, quella aperta da Riccardo Cassin e Mary Varale il 2 Luglio del 1931. Lì però era pericoloso perché spesso il moschettone sfuggito di mano ai rocciatori arrivava fischiando sulle comitive che prendevano il sole aspettando il loro turno per salire la via normale.
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Messaggioda danielegr » gio mar 17, 2011 12:18 pm

Prendo lo spunto dall'idea di Crodaiolo: non mi sembra il caso di aprire una discussione apposita, perché non riuscirebbe a contenere più di due o tre interventi. Quindi accodo qui qualche considerazione sul vino, come era negli anni '50 e '60.
Beh, era una vera schifezza: non c'erano controlli e ognuno faceva quel che voleva. Era abbastanza comune annacquare abbondantemente (aggiungendo magari acido citrico o tartarico per far notare di meno l'annacquamento) qualche vino pugliese, quindi di alta gradazione e di colore molto carico, per ottenere un vinello che faceva a fatica i dieci gradi richiesti per la vendita e aveva un colore abbastanza chiaro. Quello, spesso, veniva spacciato per Bardolino. I vini più ?pasticciati? erano appunto il Bardolino, il Lambrusco, un po' meno il Valpolicella, il Chiaretto. Anche il Barbera (LA Barbera, secondo i Piemontesi...) rientrava nel gruppo dei vini dei quali diffidare.
Comunque, negli anni '50 e, direi almeno fino alla fine degli anni '60 il vino raramente veniva venduto in bottiglia: succedeva solo per alcuni vini di particolare pregio. Il contenitore usato era il fiasco e più raramente il bottiglione, che aveva più o meno la stessa capacità, circa litri 1,6 se ricordo bene. Oggi il fiasco è usato praticamente solo per il Chianti, ed è, per motivi igienici, sempre un fiasco nuovo (detto ?di primo viaggio?). Non era così allora, il fiasco veniva usato e riusato fino a che non ce la faceva proprio più. A quel punto si poteva reimpagliare, cioè rifargli un ?vestito? nuovo. Provvedevano allo scopo le ?fiascaie?: donne che appunto rivestivano per pochi soldi il vetro con la paglia. Ricordo che a Milano ce n'era una bottega in via Calatafimi, quella dove una volta si teneva la Fiera di Sinigaglia.
Altrettanto usato era il sistema più artigianale: il vinaio poteva vendere il vino sfuso. Il sistema era simile a quello che vedo ancora in uso per la birra: un cannello premendo il quale il vino arrivava direttamente nel bottiglione portato dal cliente, cosa che da bambino mi ha sempre affascinato: non capivo come arrivasse il vino, mi sembrava quasi una magìa...
Interessante è anche sapere come avvenivano i rifornimenti ai rivenditori: il grossista, che spesso era un nominativo noto e apprezzato, per esempio ?Montresor? che aveva ottimi vini della zona del Garda, forniva il vino in damigiana insieme ad una dotazione delle proprie etichette. Il dettagliante imbottigliava? non necessariamente lo stesso vino che gli era stato fornito e applicava sul fiasco la prestigiosa etichetta, sulla quale c'era, scritto in piccolo in un angolo ?imbottigliato dal cliente?, che in pratica voleva dire: io Montresor non so niente di quello che c'è in questo fiasco, il cliente ha comperato il mio vino ma non so se qui dentro c'è proprio quello.
La prossima volta torneremo a parlare di montagna.
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Messaggioda crodaiolo » gio mar 17, 2011 13:02 pm

danielegr ha scritto:Il sistema era simile a quello che vedo ancora in uso per la birra: un cannello premendo il quale il vino arrivava direttamente nel bottiglione portato dal cliente,
cosa che da bambino mi ha sempre affascinato: non capivo come arrivasse il vino, mi sembrava quasi una magìa...

questa E' magìa...
grazie
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Messaggioda CMauri » gio mar 17, 2011 21:20 pm

danielegr ha scritto:La prossima volta torneremo a parlare di montagna.


Dovresti scrivere un libro... sul serio!
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Messaggioda danielegr » gio mar 31, 2011 11:44 am

Visto che abbiamo parlato di vino, parliamo un po' anche di grappa. Alla scuola della Parravicini fra gli altri allievi c'era il figlio di un produttore di grappa del Veneto, e di una delle migliori. La marca cominciava con ?M?. Mi sembra che non esista più: credo che sia stata assorbita da qualche azienda maggiore: peccato.
Comunque, appena visto l'allievo e il suo cognome ci siamo costituiti in un movimento unico: obbligo tassativo di portare ad ogni lezione un consistente campione della sua grappa: non di quella che vendevano, ma di quella che bevevano in famiglia. Il campione veniva requisito e ce lo sbevazzavamo alla fine della lezione, prima di tornare a casa. Credo che il nostro ragazzo non sia mai riuscito ad assaggiare un solo goccio della grappa che portava, ma tanto avrebbe potuto rifarsi a casa...
Non ne avevo mai assaggiata di così buona: era una delizia, peccato che il bottiglino fosse piuttosto piccolo, e i clienti tanti...
Però forse un'altra grappa ?super? l'avevamo trovata: e qui bisogna tornare al Tartaglione-Crispo, il nostro rifugetto, quasi la nostra seconda casa. Eravamo il solito gruppetto di amici e avevamo in programma qualcosa per il giorno dopo, un qualcosa che sapevamo bene che non avremmo potuto realizzare visto il tempo inclemente. E allora cosa fare? Avevamo comprato a Chiareggio un paio di bottiglie di grappa e ce le eravamo portate al rifugio. Non aveva marca, se ricordo bene non aveva nemmeno l'etichetta: probabilmente era qualche grappa che producevano artigianalmente per uso proprio. Quindi la cena servita dalla solita e bravissima Celesta e abbondantemente innaffiata, tanto domani non si può andare in giro. E la grappa? Beh, quella dopo cena naturalmente. Finita la cena quindi, via con la grappa. Già ma i bicchierini? Quelli non ci sono, ma non è certo il caso di spaventarsi per così poco: ci sono i bicchieri normali della tavola, anche se qualcuno di quei bicchieri è da un quarto di litro. Quello che non avevamo pensato è che quando un bicchiere è pieno, anche se è da un quarto, è facile svuotarlo. D'accordo che poi va di nuovo riempito (e risvuotato) ma questi sono dettagli insignificanti.
Morale della storiella? Alla fine eravamo tutti piuttosto sull'allegro (leggi: ciucchi traditi), e anche il salire la scaletta per accedere alla camerata al piano superiore ha creato non poche difficoltà. Io ricordo che l'avevo salita a quattro zampe. Nessuna difficoltà invece per addormentarsi: appena toccato il tavolato russavamo di già. E russavamo al punto che quando un paio d'ore dopo alcuni nostri amici sono arrivati al rifugio e hanno incominciato a picchiare con un sasso sulla porta in ferro per farsi aprire, nessuno li ha sentiti: meno male che ha provveduto la Celesta. Al mattino grande meraviglia a vedere che nel materassino di fianco al tuo c'era una persona che ieri non c'era.
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Messaggioda danielegr » gio apr 14, 2011 15:44 pm

Guardavo oggi l'edizione on-line del Corriere della Sera e, fra le tante notizie più o meno brutte trovo anche questa:

http://www.corriere.it/cronache/11_aprile_14/monte-bianco-bivacco-high-tech_23af8c8e-665b-11e0-845d-6f853e73e433.shtml

C'è anche una piccola immagine di quello che dovrebbe essere il nuovo bivacco Gervasutti: assomiglia più alla carlinga di un aereo che a un bivacco alpino.

Immagine


Non vorrei fare il retrogrado a tutti i costi, ma mi sembra che mettere in montagna una struttura di quel genere sia un po' come un pugno in un occhio. Va bene avere le comodità, va bene avere, per esempio, l'elettricità gratuita tramite pannelli fotovoltaici, va bene tutto, ma insomma, qui siamo in montagna, non a Disneyland ?
Mi vengono in mente i bivacchi che ho frequentato ai miei tempi: del primo ho già parlato (si chiamava Luigi Amedeo di Savoia ed è stato sostituito, credo dal Carrel) sul Cervino ed è quello nel quale, per una innocente pisciata notturna volevano buttarmi direttamente sull'Oriondé...
Un altro è stato il bivacco Taveggia, sulla punta Kennedy nel gruppo del Ventina: se non ricordo male (parliamo sempre di mezzo secolo fa o di più) non abbiamo dormito lì. Eravamo partiti dal Tartaglione Crispo in piena notte per fare con la scuola estiva la Est della Kennedy e al bivacco Taveggia abbiamo sostato un po' per tirare il fiato e mangiarci un panino, poi abbiamo fatto la nostra salita. Ricordo che durante la discesa, prevalentemente su ghiaccio, avevo fatto una scivolata fermandomi appena in tempo.
L'altro bivacco, l'ultimo che ricordo, era al Passo di Mello, l' Odello Grandori
Ho trovato in Internet questa foto, mi pare che sia proprio lui.

Immagine

Eravamo partiti dal Tartaglione Crispo, Beppe M. io e un paio di ragazze che avevano trascorso qualche giorno al rifugio (niente di pruriginoso comunque: in quegli anni o le sposavi o niente). dal Tartaglione avevamo risalito la Val Sissone fin quasi alla testata e poi con un ampio giro avevamo attaccato il ghiacciaio che porta al Passo di Mello. Ricordo che avevamo avuto delle difficoltà per superare la terminale, la mia compagna era scivolata cadendo nel crepaccio e l'avevo tirata su senza particolari problemi, a parte Beppe che sghignazzando diceva: adesso che l'hai salvata te la devi sposare!!
Mi pare proprio di ricordare di averlo mandato affan...
Arrivare al passo non era stato semplice: gli ultimi metri erano parecchio ripidi e la corda fissa era sepolta dalla neve. Tuttavia ci siamo arrivati abbastanza bene: immediatamente al di là del passo c'era il bivacco, al quale non vedevamo l'ora di arrivare perché eravamo in marcia da almeno sette-otto ore. Però... sorpresa!! Il bivacco era in ottime condizioni, ma completamente privo di coperte: qualcuno se le era fregate e i nostri sospetti sono andati sui pastori della Val di Mello. Chissà se erano stati veramente loro. Comunque non ci sono stati grossi problemi per la mancanza di coperte.
Il giorno dopo la nostra intenzione era di salire il Disgrazia per una cresta (forse la Sud?): Beppe che già la conosceva diceva che era una via in un ambiente grandioso e di sicura soddisfazione, ma il tempo non era d'accordo. Era calata una forte nebbia, non si vedeva un tubo e continuare la salita sarebbe stato un rischio che non valeva la pena di correre. Quindi siamo tornati indietro e la vetta del Disgrazia è rimasta uno dei tanti sogni non realizzati nella mia vita di alpinista. A proposito: conoscete l'origine di un nome tanto ?menagramo? per una cima tanto bella? Tanto bella al punto che il suo primo nome fu ?Pizzo Bello?. Sembra (anche se sono altre versione) che il nome sia una corruzione del dialetto locale ?desglacia?, cioè che scarica ghiaccio dovuto secondo alcuni al fatto che gli alti pascoli sono formati da un'erba scivolosa, sulla quale la neve faceva poca presa e scivolava a valle. Secondo altri, invece, al fatto che le pareti abbastanza ripide favorivano il distacco di slavine.
15-4 ho risistemato l'immagine che era troppo piccola
Ultima modifica di danielegr il ven apr 15, 2011 18:42 pm, modificato 1 volta in totale.
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Messaggioda crodaiolo » ven apr 15, 2011 18:26 pm

danielegr ha scritto:... e un paio di ragazze che avevano trascorso qualche giorno al rifugio(niente di pruriginoso comunque: in quegli anni o le sposavi o niente)
danielegr ha scritto:...Comunque non ci sono stati grossi problemi per la mancanza di coperte.

prurigine per prurigine ...
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Messaggioda danielegr » sab apr 30, 2011 15:33 pm

Ho visto questa discussione e mi sono tornate in mente le vicissitudini con le corde ai miei tempi.
Innanzi tutto le mie prime arrampicate hanno coinciso con gli ultimi anni delle corde in canapa: quanto ho frequentato come allievo la Parravicini c'erano solo quelle: quaranta metri calibro 12 mm. Pesavano una tonnellata!! Ovviamente era l'allievo a portare la corda, l'istruttore al limite gli avrebbe dato una mano se l'avesse visto in difficoltà.
Le corde in canapa sì, si potevano rompere: anche solo per usura oltre che, naturalmente, nel caso passassero su lame di roccia taglienti. Erano solo corde ritorte: essendo la fibra della canapa abbastanza corta (se ricordo bene intorno ai 40 centimetri) era necessaria l'intrecciatura per unire le varie fibre. Erano tre legnuoli ritorti, composti ognuno da tre i trefoli, ognuno dei quali composto da 180 fili. La corda in sé era abbastanza valida, almeno su roccia, aveva un carico di rottura abbastanza buono, ma poca elasticità.
Problemi ne aveva, ad esempio il solo fatto di essere ritorta provocava facilmente degli arricciamenti con conseguente difficoltà di scorrimento nei moschettoni. Se si pensa che allora non si usavano i ?rinvii?, ma un solo semplice moschettone agganciato al chiodo si capisce come gli angoli che faceva la corda erano tali da rendere comunque difficoltoso il semplice scorrere. Il primo di cordata prima di affrontare dei passaggi delicati tirava la corda dietro di lui per assicurarsi di avere abbastanza scorrimento.
La corda in canapa, poi, aveva anche un altro grave difetto: l'igroscopicità. Assorbiva umidità molto facilmente e se poi ci fosse stato un calo di temperatura al di sotto dello zero sarebbe ghiacciata. Conseguenze? Innanzitutto la rigidità della corda stessa che avrebbe reso molto difficoltose le manovre, poi il fatto che il ghiaccio penetrando nelle fibre stesse della canapa ne avrebbe compromesso la resistenza. Ho già raccontato come io, dopo un violento acquazzone che aveva infradiciato la corda non fossi più riuscito a slegarmi, entrando in rifugio (Giannetti) ancora legato al mio compagno (Roberto) fra le sghignazzate di tutti i presenti.
Poi c'era il normale invecchiamento della corda da tenere d'occhio: certamente c'era il filo di sicurezza da controllare che non fosse interrotto, ma quello è un controllo che credo venga fatto anche sulle corde moderne. Era molto importante, invece, controllare l'interno della corda. Si sforzava la torsione in senso inverso e si guardava se c'era una polverina, quasi dello stesso colore della corda. Questo indicava che la canapa si stava disfacendo e quindi non avrebbe più potuto offrire sufficienti garanzie di tenuta.
Vennero poi le corde in nailon, nailon puro le primissime. Ma questa è un'altra storia.
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Messaggioda CMauri » sab apr 30, 2011 21:13 pm

danielegr ha scritto:Ho visto


Grazie danielegr, grazie davvero, con questi racconti mi/ci fai vivere un po' di storia da cui nasce la nostra passione ma che non abbiamo vissuto, troppo bello leggerti! :-)

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Messaggioda dani80 » lun mag 02, 2011 21:39 pm

bellissimi questi racconti, li ho letti tutti d'un fiato...! mi associo a chi ti chiede di continuare a scrivere!
ma davvero poi dal 61 in poi non sei piu' tornato ad arrampicare?
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Messaggioda danielegr » mar mag 03, 2011 9:23 am

dani80 ha scritto:ma davvero poi dal 61 in poi non sei piu' tornato ad arrampicare?


E' vero: ci avevo provato, ma nel frattempo era nato il primo figlio e mia moglie quando accennavo all'idea di andare in montagna andava in crisi. Si metteva a piangere (probabilmente, anche se allora non si chiamava ancora così era un caso di "depressione post partum") e io non me la sentivo proprio di lasciarla in quelle condizioni. Ho dovuto scegliere fra la montagna e il matrimonio. Ho scelto il matrimonio.
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Messaggioda danielegr » dom mag 08, 2011 11:06 am

Ho detto che le primissime corde erano in nailon puro, non è proprio esatto: il nailon, in effetti, è passato attraverso diverse tipologie, dalla 6.0 alla 12: per saperne di più http://it.wikipedia.org/wiki/Nailon
Queste corde sembrava proprio che fossero il non plus ultra per comodità, leggerezza, sicurezza, ma non era ancora stata fatta la prova nelle condizioni più difficili. Leggo questo post
http://www.forum.planetmountain.com/php ... fd2105c5ec
e ritrovo i nomi di Ercole Esposito (Ruchin), Gino Valsecchi e Bruno Ceschina.
Erano dei fortissimi rocciatori, probabilmente fra i migliori negli anni '40, e le vie aperte dal Ruchin lo testimoniano. Vollero tentare, come anche detto nel post che sopra ho linkato, la prima ripetizione della Comici al Salame. Ricordo di aver letto mezzo secolo fa un articolo in un inserto speciale dello Scarpone (mi pare: non riesco più trovarlo, probabilmente si è perso in qualche trasloco) che raccontava appunto della loro morte.
Secondo quanto ricordo i tre avevano in mente di fare la prima ripetizione della Comici al Salame, utilizzando appunto le nuove corde in nailon prima versione. Quando avevano già attaccato ed erano saliti un po' il tempo cambiò improvvisamente. Pioggia, neve, gelo rendevano impossibile la prosecuzione su una via così difficile. Bisognava tornare indietro e diceva il compilatore dell'articolo, loro amico : loro sono forti, se le corde scorrono non hanno problemi e ce la faranno certamente a tornare giù.
Purtroppo non è andata così: le corde in puro nailon non hanno superato la prova del gelo e sono diventate fragilissime: i tre sono caduti e sono morti.
La prima ripetizione, stando a quanto sono riuscito a trovare, avvenne l'anno successivo (1946) da parte di Guglielmo Del Vecchio e Mario Mauri.
Successivamente al nailon vennero aggiunte altre sostanze che ovviarono al problema, e da allora non mi risulta che ci siano più stati incidenti in montagna imputabili alle corde. Ricordo che ai miei tempi (1960 e circonvicini) una buona corda in nailon di 10 mm. veniva data con un carico di rottura di 1.800 chili.
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Messaggioda Danilo » lun mag 09, 2011 13:51 pm

danielegr ha scritto:Non è il racconto di una salita o di chissà cos'altro, solamente un ricordo che potrebbe, forse, servire a ricordare quali siano i pericoli che si possono correre in montagna, anche in posti che si crede di conoscere come le proprie tasche.
Già la Grignetta: la conoscevo benissimo, la Direttissima l'avevo percorsa chissà quante volte, con il sole, con la pioggia, con qualsiasi tempo. E mi vantavo di conoscerne ogni sasso, di poterla percorrere anche ad occhi chiusi.
Già, anche ad occhi chiusi, dicevo. Eravamo andati io e un mio amico, Vanni credo, ma non ne sono sicurissimo, a fare qualcosina dalle parti del rifugio Rosalba. E' il momento di ritornare: il tempo certamente non è dei migliori, ma anche se si mettesse a piovere, un po' d'acqua sul sentiero non ha mai fatto male a nessuno. Il sentiero, come ho già detto lo conosciamo benissimo, siamo alpinisti esperti oramai e non vediamo quali potrebbero essere i problemi.
I problemi però li vedremo presto: dopo aver fatto qualche centinaio di metri sulla Direttissima cala la nebbia: fittissima, si vede solo a tre-quattro metri. Il sentiero comunque è ben tracciato e si può seguirlo senza grosse difficoltà, anche se allora non c'erano le paline che adesso vedo su qualche fotografia. E' ben tracciato, però quando si attraversa qualche canalone le cose si complicano, il sentiero diventa una traccia e non è semplice non perderlo. Le cose proseguono abbastanza bene fino al canalone di Val Tesa, quello dove sorge la guglia Angelina, e che è abbastanza largo. La nebbia si infittisce ancora e perdiamo la traccia. Proprio non riusciamo a trovare l'uscita dall'altra parte: saliamo un po', niente, scendiamo un po', niente, anche ad andare diritto non riusciamo a trovare il sentiero sull'altra parte del canalone. Continuiamo a tentare in quel muro di nebbia ma non troviamo il bandolo della matassa: eppure è un posto che conosciamo bene. Non saprei quanto tempo sia durata la nostra ricerca, così a occhio direi una mezz'oretta. forse qualcosa di più.
Finalmente, quando oramai incominciavamo a pensare che l'unica era tornare indietro e pernottare al Rosalba, oppure scendere per la Val Scarrettone nella quale la nebbia non avrebbe dovuto esserci, la nebbia si alza un pochino, per qualche secondo solamente, ma abbastanza per individuare l'uscita. Con un po' di visibilità sembra intuitivo che il sentiero doveva essere lì, però non eravamo riusciti a trovarlo.
Morale della favola? Nessuna, salvo quella che dovrebbe essere nota a tutti: la nebbia è una brutta bestia e che in montagna bisogna sempre andare con estrema attenzione. In un'altra occasione, non in montagna questa volta ma in auto, non sono riuscito a trovare la via nella quale abitavo: ho dovuto percorrere tutta la strada principale e tornare indietro per individuare la mia via.



:lol: :lol:


L'altro giorno,sulla sinistra ed a un paio di curve prima di arrivare su alla piana di Ballabio,mi sono ricordato di fotografarla...oggi esternamente,a parte la "palina "del bus,si presenta ancora bene nonostante l'età..si diceva che era una tappa obbligata per coloro che scendevano dalla Valsassina di domenica dopo la consueta giornata trascorsa sui monti della zona..

Gli alpinisti locali la chiamavano l' usteria di tri cagàat :P e mi sembra non sia necessario scomodare la traduzione in italiano...




danielegr.......la nebbia a cui ti riferisci era indotta da questa? :lol:


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Messaggioda danielegr » mar mag 10, 2011 9:34 am

Non ricordo quella osteria: la costruzione mi ricorda più il casello dal quale veniva riscosso il pedaggio per la strada fino ai Resinelli, ma probabilmente mi sbaglio.
La nebbia a casa mia in certe stagioni era un "must". Essendoci a lato il campo volo di Bresso appena l'aria si inumidiva un po', eccola lì, bella e spessa...
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Messaggioda danielegr » sab mag 28, 2011 18:34 pm

danielegr ha scritto:Non ho purtroppo molte informazioni su chi furono Luciano Tartaglione e Luciano Crispo. Ricordo di aver visto le loro foto all'ingresso del rifugio intitolato al loro nome, appena entrati sulla destra, però non ho altri dati. Dovrebbero essere stati due soci della SUCAI (Sottosezione Universitaria del CAI) di Milano, caduti in montagna, ma questo era intuibile.
Non ho altre notizie e mi spiace.


Ho trovato qualche altra notizia su Luciano Tartaglione e Luciano Crispo, i due "sucaini" ai quali era stato dedicato il nostro rifugetto: erano caduti nel 1951 dalla via Fehrmann al Campanile Basso. Quella via non ha portato fortuna ai componenti della Sucai o della Parravicini, anche altri amici sono caduti, anche se non con conseguenze fatali da quella via. Ne ricordo uno in particolare, Franco L. che da quel momento smise di arrampicare.
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Messaggioda danielegr » dom mag 29, 2011 18:36 pm

Dopo aver ricordato Tartaglione e Crispo, caduti sulla Fehrmann al Campanile Basso, mi è venuta voglia di avere qualche notizia in più su questo Fehrmann. Non ne ho trovate molte, e alcune contrastanti fra loro: qualche sito lo segnala come una guida alpina austriaca, altri come semplice alpinista. Comunque Rudolf Fehrmann era nato il 22 giugno 1886 a bordo della nave ?Spagna? e morì nel 1947.
Cominciò ad arrampicare all'età di 17 anni e, come avvocato, fu giudice militare durante la seconda guerra mondiale. Aveva aderito fin dal 1930 al nazionalsocialismo e alla fine della guerra venne catturato e internato come criminale di guerra (anche se l'accusa non è mai stata provata) al Camp Five-Oaks nei pressi di Brandenburgo . Morì nel campo di concentramento di morte naturale il 15/2/1947 (altre fonti indicano il Marzo 1948). Ma a me, oltre al Fehrmann uomo interessava l'alpinista. Era unito da fraterna amicizia a Oliver Perry -Smith, americano che si era trasferito a Dresda per completare i suoi studi, con il quale compì le sue più importanti arrampicate, fra le quali il diedro sud-ovest del Campanile Basso, quella che oggi chiamiamo la via Ferhmann e che è stato uno dei miei tanti sogni irrealizzati.
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Questa salita venne compiuta il 27 Agosto 1908, e per tre anni non venne ripetuta, finché non ci riuscirono il 31/7/1911 Paul Preuss e P. Relly. Di Comici fu la prima ripetizione in solitaria nell'agosto del 1936. Ma Fehrmann riuscì anche ad aprire una importante via sulla Piccola di Lavaredo, parete Nord, sempre con Oliver Perry-Smith il 15 e 16 agosto 1909.
E, inoltre, il Diedro Fehrmann sulla Stabeler nel Vaiolet (1908) e decine di altre vie non solo in Dolomiti. Non trovo più i link che avevo visto nei giorni scorsi per confermare la cosa ma mi pare proprio che Fehrmann nella sua zona,le Elbe Sandstone Mountains, formate da rocce argillose e sabbiose, preferisse arrampicare a piedi nudi, in Dolomiti invece usava delle scarpe (?ciabatte?, le chiamava un sito...) con la suola di corda.
Ho trovato anche una foto, presa molto da lontano e scarsamente leggibile di Fehrmann sulla Torre Winkler, in Vaiolet. Eccola:
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Messaggioda danielegr » sab giu 11, 2011 10:28 am

Vorrei ricordare una ragazza, una cara ragazza che purtroppo non c'è più fin dal lontano 1957 o 1958. Era abbastanza bravina, ma aveva difficoltà a trovare compagni che la potessero accompagnare in qualche arrampicata su roccia. Si chiamava Maria Viganò, ma per tutti noi era Mariamaria. D'altronde in quegli anni non era facile, per una ragazza, riuscire a trovare sfogo per la sua passione per la montagna, in tutta la sezione del CAI di Milano ce ne saranno state una mezza dozzina al massimo, e per la maggior parte con un fidanzato buon arrampicatore che, qualche volta, rinunciava a salite di maggiore impegno pur di accompagnare la ragazza su un'arrampicata abbastanza facile. Non era però il caso di Mariamaria che non aveva nessun ragazzo, o almeno nessuno che arrampicasse. Un nostro amico, Guido G., un omone grande e grosso e con una forza fisica non comune aveva una giornata libera, un sabato, e ha offerto a Mariamaria di portarla sul Fungo, in Grigna. A Mariamaria non sembrava vero e accettò con entusiasmo, a maggior ragione al sabato che in Grigna non c'era quasi nessuno e quindi magari, dopo il Fungo, ci sarebbe potuta scappare qualche altra salita, magari l'Angelina o che altro.
Le cose però purtroppo presero un'altra piega: come è noto la vera difficoltà del Fungo è l'ultimo tiro, quella placca che veniva classificata ai miei tempi tra il quarto e il quinto grado. Guido la passò agevolmente, era uno che con la roccia ci sapeva fare bene, ma non così la Mariamaria. A metà placca volò e rimase appesa nel vuoto. Guido cercò in tutti i modi di tirarla su, ma l'attrito della corda sulla roccia non glie lo permise, malgrado, come ho già detto, fosse un uomo estremamente forte. Cercò aiuto, urlando e sperando che ci fosse qualche cordata in zona che potesse dargli una mano, ma era sabato e non c'era nessuno. Allora Guido assicurò meglio che poteva la ragazza e scese in libera (di solito si fa una doppia dal Fungo), e corse come un disperato fino ai Resinelli. Trovò aiuto, se ricordo bene al rifugio della SEM, e tornò su, sempre di corsa insieme agli altri soccorritori.
Purtroppo però Mariamaria era già morta: il nodo in vita era un po' risalito, le aveva compresso il torace e l'aveva soffocata. Credo proprio che sia stata una morta lenta e dolorosa, povera ragazza. Guido, che credo che adesso sia un affermato avvocato, ebbe molta a difficoltà a riprendersi da questa avventura: continuava a rimuginare il fatto per capire se e dove avesse potuto sbagliare, a rimproverarsi di aver scelto un sabato per la gita. Se fosse stato di domenica ci sarebbero state numerose cordate a portata di voce e certamente gli aiuti non sarebbero mancati. Per anni al sabato lo vedevamo stare male, addirittura piangere.
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