l'alpinismo d'antan - i miei ricordi

Arrampicata e alpinismo su roccia in montagna

Messaggioda danielegr » dom set 26, 2010 15:45 pm

Mi è capitata sott'occhio questa antica fotografia del ghiacciaio del Ventina:

Immagine scattata il 1/7/1916

(a proposito, suggerisco un giretto sul sito http://www.gusme.it/ , sulla destra ci sono i link ad alcune sezioni nelle quali si trovano delle godibilissime immagini della prima metà del secolo passato) e, cercando in giro mi è venuto naturale confrontarla con quest'altra, scattata circa novant'anni dopo: nel 2007
Immagine

E' evidente a tutti non solo quanto si sia ritirata la lingua terminale del ghiacciaio, ma anche la differenza di innevamento sulle cime intorno. La prima, quella del 1916, assomiglia molto al ricordo del ghiacciaio che ho dalla prima volta che ci sono andato, nella seconda metà degli anni '50: non mi pare di vedere grandi differenze nell'innevamento. Il ghiacciaio incominciava poco sopra il Rifugio Porro, una ventina di minuti di cammino o poco più, se ricordo bene.
Non ero molto esperto di ghiaccio, quindi quando due amici, Paolino e Eugenio, invece molto forti su quel tipo di salita, mi hanno offerto di salire con loro la Nord Ovest del Cassandra, non me lo sono fatto dire due volte.
Quindi dal Porro su per la lingua del ghiacciaio, partendo molto presto, con condizioni di neve e di tempo ottimali e arriviamo alla base della parete. Brevissimo consulto: con queste condizioni i ramponi è meglio lasciarli nello zaino e si parte. Andiamo di conserva visto che la pendenza non è eccessiva e che condizioni di neve migliori sarebbero impossibili da trovare, però, accidenti, Paolo e Eugenio non sono due alpinisti, sono due locomotive umane!! Salgono che sembra che abbiano preso l'ascensore e io, poveretto, faccio fatica a stargli dietro. Finalmente arriviamo in vetta (la mia lingua era ancora a metà parete... però ero riuscito bene o male a tenere il passo di quei due energumeni). Poi discesa per la normale e ritorno al rifugio Porro, che raggiungiamo circa alle 8 di mattina. Commento del Paolino: Noi abbiamo già finito e stiamo tornando a casa e quelli lì si stanno ancora fregando gli occhi...
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Messaggioda ctrl_alt_canc. » dom set 26, 2010 19:44 pm

ti prego scrivi il più possibile! Adoro questi ricordi che ci riporti... :smt111
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Messaggioda danielegr » mer set 29, 2010 20:39 pm

27/9
Domattina partirò per Milano: vedrò due dei miei amici dei tempi andati: Alfredo e Angiolino. Alfredo avevo avuto modo di incontrarlo per un'oretta un paio di anni fa, ma Angiolino non lo vedo almeno dal 1966. E' passata un'intera vita; poco meno di mezzo secolo. Quanto sono cambiati i miei amici? e quanto sono cambiato io? Credo che staremo bene insieme, davanti a una buona cena doverosamente innaffiata, ma non ci troveremo un po' a disagio vedendo quanto siamo cambiati? Eravamo pieni di energia, volevamo conquistare il mondo intero e oggi, nel preparare la valigia, lo spazio maggiore l'ho riservato al pigiama e alle medicine...
29/9 ore 20.30 sono appena rientrato a casa: sto saltando dalla gioia!! L'Angiolino mi ha fatto una sorpresa che più bella non si poteva: ha trovato e invitato alla cena ? sapete chi? Ma Lui!! il mitico Valerio!! Il mio istruttore alla Parravicini!! Non ci vedevamo da mezzo secolo e poiché Valerio ha un cognome abbastanza comune, almeno nel Milanese, non speravo di riuscire a beccarlo su Internet.
Quindi Angiolino, che ha qualche anno più di me dice: allora Daniele, tu sei il mio papà alpinistico, Valerio è stato il tuo, e quindi è anche mio nonno. Ma alura cuma l'è che mi sun pü se vecc del me nonu? (non mi pare necessario tradurre).
E' stata una serata magnifica, mi è quasi sembrato di tornare giovane o almeno per qualche ora ne ho avuto l'illusione.
Mi direte: bravo Daniele, ma questo cosa diavolo c'entra con l'alpinismo ?d'antan??
Non lo so e non mi interessa: a qualcuno però dovevo pur raccontarlo.
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Messaggioda danielegr » ven ott 08, 2010 12:44 pm

Racconto un'altra delle mie ?avventure? in montagna: avevamo appena finito la Parravicini, io e Roberto facevamo coppia fissa visto che eravamo entrambi stati allievi dello stesso istruttore, ci sembrava di andare abbastanza bene ma sentivamo che un po' più di esperienza trasmessaci da qualche ?anziano? non ci avrebbe certo fatto male. Quindi quando una sera alla settimana ci si riuniva al CAI stavamo con le orecchie tese per sentire se avremmo potuto accodarci a qualche anziano per fare insieme qualche salita e intanto fare esperienza. Angelo M., che non era un grande alpinista (lo diceva lui stesso) ma certo era molto più avanti di noi un bel giorno accennò alla via Bonacossa sul Cengalo e disse che gli sarebbe piaciuto farla, ma non aveva il compagno. E noi allora cosa ci stiamo a fare? Eccoci pronti!!
Angelo dice: d'accordo, però se trovate un quarto è meglio, facciamo due cordate di due e andiamo via più veloci. Non è un problema, il quarto è subito trovato, Giovanni M. Allora non resta che partire: arriviamo belli pimpanti alla Giannetti e il Fiorelli ci da le solite informazioni sulla via che avremmo dovuto fare il giorno dopo, dopo di che tutti a nanna. Al mattino io mi sento un po' strano: non capisco che cosa c'è ma certamente non sono nella mia forma migliore, quindi Roberto, mi sa che tutta la via la dovrai ?tirare? tu. Roberto mi guarda strano: come sarebbe a dire? Siamo sempre andati a comando alterno, anzi, cercando di ?fregarci? l'un l'altro i tiri più belli e adesso così, come se niente fosse rinunci? Infatti rinuncio...
L'attacco è raggiunto abbastanza in fretta, parte Angelo con Giovanni e di seguito Roberto e io. La salita è bella, su un ottimo granito, difficoltà contenute, direi intorno al terzo-quarto grado, chiaramente riferendomi ai gradi dei miei tempi.

E qui vorrei, se me lo permettete, inserire una punta polemica: è chiaro che i gradi e la valutazione delle difficoltà in mezzo secolo siano cambiate, mi sta bene che si parli, come ho pressappoco letto in una discussione, di essere una ?pippa? se non si riesce a superare il 6a oppure il 9a+b. Mi disturba invece sentire dire: andiamo a fare un 8a, siamo stati bravi perché abbiamo fatto un 7c (o qualcosa di simile). In sostanza, non mi piace vedere anteporre la difficoltà alla via. La difficoltà, a mio parere, non è mai classificabile con precisione: se quel giorno ho mal di pancia troverò difficilissima quella salita che ieri mi sembrava banale. La ?via?, invece, è una parte delle Montagna, è un qualcosa che va vissuto, con tutte le sue difficoltà e con tutte le sue bellezze, è un qualcosa che arricchisce lo spirito, non è solo un esercizio atletico.
Fine della brontolata, fermo restando che ognuno, particolarmente in montagna, è libero di comportarsi e di pensarla come gli sembra più giusto.

Non ho un ricordo preciso di come fosse la via: andando sempre da secondo stavo poco attento allo svolgimento della salita, è compito del primo cercarlo e trovarlo, e poi ero troppo occupato a tenere a bada il mio stomaco...
Arriviamo finalmente in vetta, il tempo è ottimo e c'è un bellissimo mare di nuvole qualche centinaio di metri sotto di noi. Io però una volta arrivato sto male, e vomito. Quindi in vetta al Cengalo ci sono quattro persone: Angelo, Roberto e Vanni che mangiano a quattro palmenti, e che guardano in cagnesco Daniele che, un po' scostato, vomita di tutto e di più... E, per di più ce l'avevano con me perché, dicevano, gli rovinavo il pasto!!

Per la discesa non c'è storia: una banale discesa nella quale, se ricordo bene, non c'era necessità di fare nessuna doppia. Però in quella discesa, anni dopo, quattro alpinisti lombardi durante una tormenta persero la strada e morirono in maniera orrenda. (http://www.forum.planetmountain.com/php ... 968#934968)
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Messaggioda LM81 » ven ott 08, 2010 16:10 pm

danielegr ha scritto:... Mi disturba invece sentire dire: andiamo a fare un 8a, siamo stati bravi perché abbiamo fatto un 7c (o qualcosa di simile). In sostanza, non mi piace vedere anteporre la difficoltà alla via. La difficoltà, a mio parere, non è mai classificabile con precisione: se quel giorno ho mal di pancia troverò difficilissima quella salita che ieri mi sembrava banale. La ?via?, invece, è una parte delle Montagna, è un qualcosa che va vissuto, con tutte le sue difficoltà e con tutte le sue bellezze, è un qualcosa che arricchisce lo spirito, non è solo un esercizio atletico.
Fine della brontolata...


Bellissimi racconti e parole sante :D
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Messaggioda danielegr » mar ott 19, 2010 9:39 am

Il ?Gigiatt? o ?Gigiat: una leggenda valtellinese
Tipicamente nella val Malenco e nella val Masino nasce la leggenda del Gigiat. Chi è costui? E' descritto come un essere gigantesco, mezzo uomo e mezzo capra, molto timido ma curiosissimo e sgraziato nei movimenti. E' un po' considerato quasi il nume tutelare della valle, un po' come un essere che è meglio non infastidire ma fondamentalmente buono. Secondo la leggenda poteva risalire la valle con pochi balzi.
Sulla parete di una casa di San Martino, all?imbocco della Val di Mello c'è questa scritta: ?El Gigiat, nume tutelare de esta splendida valle. Buono con lo homo che natura rispetta, mala sorte a chi lo trovasse non rispettoso. Onori et gloria a chi el vedesse e notizia ne desse??

Immagine




Stranamente mentre in Val Masino il Gigiat viene nominato tranquillamente, al punto che esiste a Bagni Masino una ?Taverna del Gigiat?, in val Malenco il suo nome sembra essere tabù. Ricordo che stuzzicavamo la Celesta, la mitica custode del rifugio Tartaglione Crispo, quella che aveva il miglior salame e prosciutto di tutta la vallata e che ogni tanto ce li forniva insieme a una polenta taragna degna dell'Olimpo... mhhh mi viene ancora l'acquolina in bocca...
La Celesta o non rispondeva oppure sviava il discorso, facendo capire che ?di quelle cose non si parla?.
Dunque, ricostruisco a memoria quello che mi dicevano i vecchi quando io ero giovane, pertanto potrei incorrere in qualche inesattezza, anche se ho cercato di limitarle con San Google. Il rifugio Tartaglione Crispo è stato costruito intorno al 1954 o 1955, ad opera della SUCAI di Milano. Prima c'era un altro rifugetto, che credo fosse sede della scuola Parravicini: il nome dovrebbe essere Rifugio Santa all'Alpe Zocca. Questo rifugio, molto spartano, mi dicono che non fosse dotato dei servizi igienici, come del resto quasi tutte le case della valle. Quindi un biondo e volonteroso sucaino si incaricò di portare su, a spalla ovviamente, un cesso, probabilmente una ?turca?. Per inciso da quel momento il ragazzo in questione venne da tutti soprannominato ?el biund del cess?.
Una cosa del genere non si era mai vista in Val Sissone!! Tutti gli abitanti corsero fuori per veder passare ?el biund del cess?. Anche il Gigiat, notoriamente curiosissimo e maldestro volle affacciarsi al Passo di Mello per vedere questa cosa strana e così facendo provocò quella valanga d'acqua che di lì a poco distrusse il rifugio Santa. In effetti pare che sotto al ghiacciaio del Sissone si fosse formato una specie di lago sotterraneo, lago che a un certo punto sfondò lo sbarramento e facendosi strada verso il Mallero travolse fra l'altro il rifugio, rendendo necessaria la costruzione del nuovo, appunto il Tartaglione Crispo.
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Messaggioda Danilo » gio ott 21, 2010 0:16 am

Storiella assai curiosa quella del "cesso" ,mi ricorda una storia simile ma praticata una ventina di anni dopo il fatto della Val Sissone su una via di roccia rinomatissima......:lol:

Crispo e Tartaglione......presumo siano due cognomi....ma che fecero o meglio ancora,chi erano 'sti due? :wink:
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Messaggioda danielegr » gio ott 21, 2010 10:37 am

Non ho purtroppo molte informazioni su chi furono Luciano Tartaglione e Luciano Crispo. Ricordo di aver visto le loro foto all'ingresso del rifugio intitolato al loro nome, appena entrati sulla destra, però non ho altri dati. Dovrebbero essere stati due soci della SUCAI (Sottosezione Universitaria del CAI) di Milano, caduti in montagna, ma questo era intuibile.
Non ho altre notizie e mi spiace.
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Messaggioda giorgiolx » gio ott 21, 2010 10:41 am

danielegr ha scritto:Non ho purtroppo molte informazioni su chi furono Luciano Tartaglione e Luciano Crispo. Ricordo di aver visto le loro foto all'ingresso del rifugio intitolato al loro nome, appena entrati sulla destra, però non ho altri dati. Dovrebbero essere stati due soci della SUCAI (Sottosezione Universitaria del CAI) di Milano, caduti in montagna, ma questo era intuibile.
Non ho altre notizie e mi spiace.


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Messaggioda danielegr » sab ott 30, 2010 15:06 pm

Rileggendo quello che avevo scritto sul Gigiat mi è venuta curiosità di saperne di più, quindi un paio di ricerchine su Google mi hanno fornito queste ulteriori informazioni:

Forse all'origine della credenza del Gigiàt c'è una colossale burla, ai danni di un ricchissimo e stravagante conte morbegnese, che si vantava di aver raccolto nella sua dimora tutto quanto di più curioso e raro la terra di Valtellina potesse offrire. Autori della burla due abitanti di San Martino, che gli dissero di aver visto, nei pressi del pizzo Badile, un animale spaventoso, enorme, dal pelo caprino lunghissimo e nero e dalle narici vomitanti fiamme. Il conte arse allora dal desiderio di poter arricchire la sua raccolta di rarità catturando quell'animale prodigioso, ed anticipò una cospicua somma di denaro ai due, purché si impegnassero a catturarlo. E' facile intuire quel che accadde: del Gigiàt e dei due non si vide più neppure l'ombra, e da allora sono trascorsi due secoli buoni, senza che nessuno abbia saputo portare prove attendibili sull'esistenza del fantomatico animale.

Però il Gigiat è veramente riapparso. A parte la leggenda, mi pare dell'800, di un Gigiat catturato e portato a valle che sarebbe morto quasi subito di ... raffreddore, chiaramente solo una leggenda, si narra che al carnevale di Morbegno nel 1956 sfilò, infatti, fra la sorpresa e l?ilarità di tutti, un esemplare di Gigiat incatenato e condotto da due abitanti di S. Martino, che volevano, così, assestare un sonoro schiaffo morale a tutti quei Morbegnesi che, prendendo spunto dall?episodio sopra narrato, andavano dicendo, dei ?Valöcc? (cioè degli abitanti di Val Masino), che sono persone inaffidabili. Ecco, costoro dovevano ora ricredersi: alla fine l?animale, catturato, era stato portato a Morbegno, come qualche generazione prima era stato promesso. Si trattava, in realtà, di un asino ricoperto di pelli, condotto da un cacciatore con il fucile di legno e da un aiutante, che tentò, anche, di mungerlo. Fra le risate di tutti, la mungitura non riuscì, perché il freddo aveva congelato il latte nelle mammelle (ovviamente posticce). Senza scomporsi, però, l?aiutante corse a comperare del latte appena munto e lo inserì nelle finte mammelle: alla fine anche il latte del Gigiat venne, così, pubblicamente munto.
Rimase, a ricordo dell?epica impresa, una poesiola in dialetto, riportata nel bel libro di Mario Songini ?La Val Masino e la sua gente? (aprile 2006):
?L?è scià el Gigiàt de San martìn
l?è ?na bestia düra
che a tüti la fa pagüra.
L?em ciapä e encatenä
e a Murbegn, al carnevä,
l?em portä.
El so lac ?l?è tant fregè
che senza el quac? al sé quagè?

(E? qui il Gigiàt di San Martino/è una bestia dura/che a tutti fa paura./Lo abbiamo preso e incatenato/e a Morbegno, al carnevale,/l?abbiamo portato./Il suo latte è tanto raffreddato/che senza il caglio è cagliato?).
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Messaggioda gatto alpestro » sab ott 30, 2010 16:18 pm

Vorrei intervenire per esprimere la mia felicità per questo post, di cui auspico una qualche forma di pubblicazione.

Mi permetto solo di far notare una imprecisione nella morte di Comici, che secondo le fonti più accreditate non avvenne per la rottura di una corda durante una doppia, versione che comunque circola, ma per la rottura di un cordino che portava con se e che usò per sporgersi da una parete della falesia di Vallunga per vedere se alcuni amici stavano arrivando da sotto. Comunque sia, l'esempio è calzante: le corde in canapa, e a maggior ragione i cordini, erano soggette a difetti di fabbricazione o attacchi di parassiti che ne compromettevano totalmente la sicurezza. Per questo gli alpinisti più seri cercavano le fabbriche più quotate e i materiali migliori, come la canapa di Manila (che propriamente non è una canapa, ma un'altra pianta).
Il gatto dà l'emozione di accarezzare una tigre, ma con meno spese di mantenimento.
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Messaggioda danielegr » sab ott 30, 2010 17:18 pm

In effetti ho sentito anche io questa versione: non so quale delle due sia quella autentica. Ricordo di aver letto, negli anni '50 o inizio '60 di una inchiesta a suo tempo (1940) probabilmente condotta dai Carabinieri di Selva che aveva attribuito l'incidente alla causa che avevo detto in precedenza (corda rottasi durante una doppia: rottura dovuta all'arrugginimento della corda stessa rimasta troppo tempo appesa a un chiodo).
Andando adesso su Wikipedia e poi su sul racconto di un testimone diretto vedo che la storia è alquanto diversa da come l'avevo raccontata: grazie Gatto Alpestro!
In effetti mi sorprende molto che un alpinista della statura e dell'esperienza di Comici abbia compiuto una manovra così azzardata come quella descritta, ma non mi sorprende per niente che la cosa sia stata messa a tacere dal regime, allo scopo di non addebitare una così grave imprudenza a un uomo che era diventato un simbolo della "gioventù fascista"
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Messaggioda gatto alpestro » mar nov 02, 2010 0:31 am

Non sono un esperto di Comici. Ho letto la versione del cordino sul libro di Spiro dalla Porta "Comici. Le ali dell'angelo", ed. Nordpress, dove sono riportate testimonianze di prima mano di chi fu presente. Sembra che Comici portasse abitualmente con se un pezzo di cordino, probabilmente proprio per evenienze come quelle di sporgersi da una parete.
Forse fu proprio, come dici tu, la banalità dell'incidente a suggerire la versione alternativa della doppia andata male, più eroica.
Ricordo però che Comici, pur iscritto al partito fascista e podestà, aveva ben poco del fascista, anzi, ce ne fossero di fascisti come lui. A lui interessava solo arrampicare, non la politica, proprio come oggi tanti vanno nelle forze dell'ordine per praticare uno sport, non per acchiappare delinquenti. Nel libro viene descritto come un uomo modesto e gentile con tutti, per nulla esibizionista e macho, il contrario dell'eroe fascista.
E visto che è il topic dei ricordi, ho sentito che proprio Comici anticipò le tendenze attuali facendosi costruire un masso con prese scavate che usava per le dimostrazioni, in un epoca in cui si taceva ogni dettaglio tecnico puntando tutto sull'esaltazione dell'ardimento personale.
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Messaggioda danielegr » mer nov 03, 2010 12:46 pm

E' facile che abbia già scritto qualcosa in merito, ma non ho voglia di andare a controllare, pazienza... date la colpa all'età.
Ho letto sul Forum una discussione circa la manutenzione di una corda e mi sono ricordato di quelle in uso negli anni '50 e anche prima.
I manuali di alpinismo dei miei tempi erano molto attenti nella descrizione sull'uso delle corde. Incominciavano a vantare i pregi (leggerezza, resistenza, impermeabilità) della corda di... seta. Dicevano anche però che per il loro alto costo non erano molto usate.
Poi iniziavano a descrivere le corde in sisal, una fibra ricavata da un'agave originaria del Messico. Questa corda era vantata come impermeabile: si diceva anche che aveva una buona resistenza. Io aveva fatto delle prove con un pezzo di spago in sisal e avevo notato che la corda non avrebbe mai potuto scorrere liberamente. Era sufficiente un solo moschettone per rendere difficilissimo lo scorrimento, figurarsi in parete. Inoltre era ?pelosa?, aveva dei pelucchi che uscivano dalla corda e rendevano difficile anche solo tenerla in mano, figurarsi poi per ?tenere? un volo. Infatti i suddetti manuali la consigliavano solo per ghiacciaio. Non ho mai visto all'opera però nessuno dei due tipi di corda, seta o sisal, nemmeno su ghiacciaio. Quella che si usava normalmente era la corda di canapa, generalmente dodici millimetri, dieci se si fosse arrampicato con due corde. La corda di canapa, a differenza delle successive in nailon, era sempre una corda ?ritorta?, cioè formata da tre legnoli ognuno dei quali formato da un certo numero di fili (mi pare 180 ma non ci giuro), tutti ritorti. In altre parole, non esisteva la ?calza?. Questo procedimento era necessario perché le fibre della canapa non sono molto lunghe, se ricordo bene una quarantina di centimetri, e l'intrecciatura garantiva la tenuta delle varie fibre fra di loro. Questo tipo di corda per anni e anni è stato praticamente l'unico usato in montagna. Difetti? Certo, e tanti: innanzitutto il peso, poi il fatto che assorbiva l'acqua e l'umidità e, in caso di gelo, diventava un bastone e non era più manovrabile. Oltre a tutto il ghiaccio penetrando all'interno delle fibre ne riduceva in modo drastico la tenuta. La manovrabilità con corda bagnata era un altro dei punti deboli: bastavano un paio di moschettoni e con la corda bagnata diventava un'impresa proseguire. Ho già raccontato di quella volta che io e Roberto siamo dovuti rientrare in rifugio ancora legati perché con la corda bagnata non si riusciva a sciogliere i nodi...
Noi quando avevamo una corda nuova ne segnavamo la metà con del nastro adesivo oppure anche con l'inchiostro: era fondamentale durante l'arrampicata avvisare il primo che si superava la metà corda, in modo che potesse incominciare a valutare la necessità di fermarsi per la sicurezza. Meglio usare il nastro adesivo perché quello lo sentivi con la mano mentre facevi sicurezza al primo e gli urlavi ?metà cordaaaa!!!?. Poi ogni tanto lo si avvisava ?mancano dieci metri?.
Un altro problema era la durata della corda: si valutava la sua tenuta attraverso un filo di sicurezza, di colore diverso da quello della corda, che la percorreva per tutta la sua lunghezza: se il filo a un certo punto si interrompeva voleva dire che era ora di darla alla mamma per stendere il bucato... Un altro criterio di valutazione consisteva nello srotolare un pezzetto dei trefoli e vedere se facevano una polverina. Anche in quel caso la mamma avrebbe visto rimpinguarsi la sua scorta di corde per il bucato.
Ricordo il caso di un alpinista, noto per la sua fenomenale avarizia che aveva due corde: una, molto logora, che usava solo per la salita e l'altra, un po' meno conciata, che usava per le doppie. Diceva che non si fidava a scendere in doppia con la ?corda da salita? perché temeva che si rompesse... Mah...
Peraltro c'erano degli alpinisti (anche alcune guide) che si tramandavano la corda da padre in figlio, alla faccia della sicurezza.
Buona parte dei problemi si sono risolti con l'avvento delle corde in nailon, o meglio, in fibra sintetica.
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Messaggioda danielegr » mar nov 09, 2010 15:13 pm

Oggi è un altro giorno speciale: per merito dell'Angiolino (lo stesso dello spigolo del Badile, quello che ha fatto la spedizione in Groenlandia) ho ritrovato un altro amico: Enrico R.
Rapido scambio di e-mail e mi ha fornito dei dati che mi hanno fatto piacere. Enrico, come anche Angiolino, ma non quel pigrone del Daniele, aveva l'abitudine di segnare su una specie di diario i dati principali delle salite che faceva e così mi ha indicato le date nelle quali abbiamo fatto alcune bellissime salite insieme.
Innanzi tutto, verso la fine di agosto (1961) mi trovo ad avere una settimana di ferie e cerco un compagno. Nelle settimanali riunioni serali al CAI lo trovo: Enrico. Enrico era il felice proprietario di un'automobile, se ricordo bene una 600 ma non ci giuro. Con quella, dice Enrico, ci si può portare dietro la casa. E allora approfittiamone!! Lo zaino lo possiamo riempire con ogni ben di Dio, corde, cordini, moschettoni, chiodi, viveri, tutto insomma. Tanto quello che non ci servirà immediatamente lo si potrà lasciare in macchina. Avrebbe dovuto venire anche l'Angiolino, che però è stato bloccato da un improvviso malessere di sua figlia, un'operazione di appendicite felicemente risoltasi nel giro di alcuni giorni. Quindi rimaniamo Enrico e io: e partiamo ben decisi a sfruttare fino all'ultimo i giorni di ferie che abbiamo.
Era il 30 Agosto 1961 e facciamo la prima tappa al rifugio Contrin, sotto la Marmolada: all'inizio della Grande Guerra fu sede del comando Austriaco e per questo venne bombardato e distrutto dagli Alpini della 206^ compagnia comandata dal tenente Arturo Andreoletti, quello che in seguito fondò l'Associazione Nazionale Alpini.
Il rifugio venne ricostruito dopo la guerra. Mi sarebbe piaciuto inserire una foto del rifugio come era in quegli anni, ma non la trovo più. Metterò allora solo una foto della parete Sud della Marmolada, trovata sul Web.

Immagine
Saliamo poi al passo Ombretta e vediamo diversi residui di trincee e reticolati della guerra del 1915/18. Ma non abbiamo tempo di esaminarli con l'attenzione che meriterebbero, la Sud della Marmolada ci aspetta e non vogliamo fare tardi. Individuiamo l'attacco e partiamo. La via che ci aspetta è piuttosto lunga ed è meglio attaccare subito. Non mi sembra il caso di descrivere la via, parlo della normale sulla parete Sud perché la conosceranno già in molti . Mi limiterò a ricordare che la salita si può dividere, grosso modo, in tre parti: la prima su roccia ottima ed anche con le maggiori difficoltà tecniche, la seconda più facile su roccia ancora abbastanza buona e la terza che arriva alla vetta su roccia friabile ma con difficoltà molto contenute.
Arrivati alla vetta troviamo un rifugetto, mi pare che si chiami rifugio Penìa, ottimo per tirare un po' il fiato, bersi un thè, mangiare un boccone e prepararsi per la discesa. Intanto diamo un'occhiata giù, verso Nord, verso il Pian dei Fiacconi ancora ben innevato. A proposito, lo sapete perché ha quel nome che non sembra certo invitante?
Gli è stato attribuito da dei cartografi che risalivano in gruppo il ghiacciaio della Marmolada. Una parte dei cartografi a un certo punto, visto che le gambe facevano male e che avevano un bel pianoro decise di fermarsi a poco più di 2600 metri. Quelli erano i ?fiacconi? e così venne chiamato il pianoro. Altri proseguirono ancora un po', fino a quello che oggi è chiamato ?Pian dei Fiacchi?, a circa 2900 metri, ma anche loro rinunciarono a andare oltre. Solo pochi dei cartografi raggiunsero la cima, e si vendicarono dei compagni, fiacchi e fiacconi dando quei nomi ai diversi pianori. A quel punto, però secondo me avrebbero dovuto battezzare la vetta ?pian dei Validi?, ma non lo hanno fatto.
Finita sia la divagazione sui nomi, sia il riposino al rifugio è ora di pensare alla discesa: scendiamo per la cresta Ovest e anche lì troviamo diversi residui della guerra, corde fisse e simili che ci ricordano che quella era una delle vie battute dai nostri Alpini. Una discesa tutto sommato semplice ma che richiese un certa attenzione, anche per via del ghiaccio.
Enrico mi dice, dalle sue note che il tempo impiegato fu di sei ore e un quarto: non so se si riferisce alla sola salita oppure anche alla discesa per la cresta, direi probabilmente alla sola salita.
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Messaggioda kala » mar nov 09, 2010 16:21 pm

che piacere, Daniele, ero di nuovo rimasto indietro nella lettura :D

Se stringi il pugno la tua mano è vuota: solo con la mano aperta puoi possedere tutto.
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Messaggioda skwattrinated » mar nov 09, 2010 16:35 pm

danielegr ha scritto:Un altro problema era la durata della corda: si valutava la sua tenuta attraverso un filo di sicurezza, di colore diverso da quello della corda, che la percorreva per tutta la sua lunghezza: se il filo a un certo punto si interrompeva voleva dire che era ora di darla alla mamma per stendere il bucato...


Non lo sapevo...
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Messaggioda Mascavezza » mar nov 09, 2010 18:52 pm

Complimenti Daniele, i tuoi racconti sono bellissimi.
Sono nuovo del forum, ma credo che passerò spesso e volentieri da qua per leggere i tuoi racconti. La memoria dei "veci" è un vero tesoro.
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Messaggioda danielegr » dom nov 14, 2010 19:10 pm

E dopo la Marmolada ci trasferiamo in zona passo Sella. Abbiamo l'idea di fare la Nord del Sassolungo per la via Pichl: Ci teniamo a sfruttare ben bene quella settimana di ferie, arrampicare il più possibile, ma soprattutto fare delle vie belle, divertenti, difficili ma non troppo e, naturalmente, riportare a casa le ossa tutte intere. Abbiamo preso un giorno libero dalle arrampicate un po' per trasferirci nella nuova zona, un po' per non affaticarci troppo, cosa che potrebbe poi mettere in forse il raggiungimento dell'ultimo obiettivo: riportare a casa le ossa tutte intere.
Abbiamo una descrizione un po' sommaria della via, niente a che vedere con le descrizioni che leggo spesso sul Web nelle quali viene indicato, tiro per tiro, il percorso, la difficoltà, la presenza di chiodi eccetera. Praticamente in una decina di righe diceva tutto, fidando forse nel senso di orientamento e nell'esperienza dell'alpinista, anche se si tratta di una via lunga oltre mille metri.

Nel pomeriggio preferiamo fare una puntatina per individuare l'attacco. La descrizione ci dice che non è una via difficile, l'unico problema è trovarla e poi trovare la discesa. In effetti così, di prima battuta, non è chiaro da dove si dovrebbe attaccare: ci consultiamo Enrico e io e crediamo di aver individuato il punto che ci serve, quindi si torna al rifugio, e poi a nanna. Domattina bisognerà partire presto perché la relazione parla di tempi parecchio lunghi sia per la salita che per la discesa, addirittura 12-13 ore, però sappiamo che in cima c'è un bivacco nel quale, eventualmente si può fare tappa se ce ne fosse la necessità.
Ecco il tracciato della via:
Immagine
E allora partiamo, tanto l'attacco l'abbiamo già individuato ieri. Seguiamo la descrizione della guida (molto sommaria, come ho già detto) e affrontiamo una facile parete non molto inclinata che sale in diagonale fino ad uno spigolo. E poi? non mi ricordo niente di particolare: una bella salita, non difficile, intorno al quarto grado che ci porta al bivacco poco sotto la vetta. Anche se non me lo ricordo proprio, immagino che ci saremo fermati a mangiare un boccone e a studiare la via di discesa. Ecco, proprio la discesa era difficile da trovare, poco intuitiva però con un po' di fortuna e un paio di tentativi sbagliati riusciamo ad arrivare ad un rifugio che mi pare si chiami Rifugio Vicenza. E qui, sempre grazie agli appunti di Enrico so che ci abbiamo messo sei ore e mezzo, immagino solo per la salita, e che era il 1° Settembre 1961.
Non ricordo nessuna doppia e non abbiamo incontrato nessuna altra cordata, né in salita né in discesa come del resto neanche alla Marmolada. In quei tempi non era difficile riuscire a fare una via lunga, anche una classica, in perfetta solitudine.
Trovato chiodi in parete? non me ne ricordo nessuno: ne ricordo solo uno in discesa, regolarmente recuperato..., quando abbiamo sbagliato percorso e siamo dovuti risalire per una decina di metri.
Una storiella sul chiodo ?regolarmente recuperato?, tanto era su una via sbagliata e avrebbe potuto trarre in errore. In quel periodo era in atto una discussione sul formato dei chiodi: il chiodo ?verticale? era osteggiato dai più. Si diceva infatti che era facile martellandolo farlo entrare troppo nella fessura, in modo da ostruire in parte l'asola e rendere difficoltoso girare il moschettone, cosa che invece non succede con il chiodo ?orizzontale?. Quello era un chiodo ?obliquo?, cioè la parte dell'anello era sfalsata di 45 gradi rispetto alla lama, quindi avrebbe potuto servire sia come verticale che come orizzontale. Non ricordo di averne visto altri nella mia carriera alpinistica, probabilmente era stato lasciato da qualche cordata non italiana.
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Messaggioda danielegr » dom nov 21, 2010 19:29 pm

Proseguo con la narrazione delle mie ferie con Enrico, grazie ai suoi appunti. Infatti questi mi dicono che il 3 Settembre 1961 abbiamo salito la fessura Preuss sulla Piccolissima di Lavaredo. Quindi anche questa volta, dopo una via lunga ci siamo presi un giorno di pausa, anche per il trasferimento al rifugio Auronzo. Ma non parliamo subito di arrampicate, prima due parole su una leggenda di Lavaredo.
Vorrei ritrovare quella bella leggenda che avevo sentito anni fa, ma non ci riesco. Cerco di ricostruirla a memoria: c'era un potente re de luogo che aveva una figlia bellissima, e un grande gigante, buono ma molto brutto e deforme. Questo gigante era innamorato della bellissima figlia del re, ma sapeva che, a causa del suo aspetto non avrebbe mai potuto aspirare alla sua mano. La principessa, infatti gli preferì un altro. Le nozze furono celebrate con grandissime feste e ognuno degli abitanti portò un regalo alla coppia, tutti, tranne il gigante che avrebbe voluto fare un regalo speciale, che potesse rallegrare la principessa in ogni momento della sua vita, ma che non riusciva a trovare un regalo adatto. Finalmente lo trovò: avrebbe scolpito le montagne intorno in modo che la principessa potesse sempre vederle affacciandosi alla sua finestra. Avrebbe dovuto però farlo molto in fretta, intanto che la principessa era in viaggio di nozze, per far trovare pronto il regalo per il suo ritorno. Abbozzò la Cima Grande e la Ovest e incominciò a scolpire, più in fretta che poteva la Piccola e la Piccolissima. Ma il lavoro era enorme e l'ansia di non riuscire a fare in tempo angosciava il gigante che continuò a lavorare giorno e notte senza concedersi riposo, finché la fatica non lo uccise. La Cima Grande e la Ovest rimasero solo abbozzate, mentre la Piccola e la Piccolissima erano quasi finite. La mano aperta del gigante, artefice di tanta bellezza, ricadde a formare quella che oggi chiamiamo la Forcella di Lavaredo.
Ed ecco la Fessura Preuss sulla Piccolissima

Immagine

Cosa dire della salita vera e propria che non sia già stato detto e ripetuto in migliaia di relazioni certo molto più complete della mia? Posso solamente ricordare la bellezza estrema di quella via, la sua logicità, l'esaltazione che si prova risalendo quel camino/fessura in assoluta esposizione. Ricordo che per arrivare a quella magica fessura bisognava prima superare una specie di contrafforte, nel quale c'era un'altra fessura. In questa ricordo di aver fatto molta fatica, perché ero entrato con la spalla sinistra mentre sarebbe stato necessario entrare con la destra (oppure era il contrario? boh...) Cambiare a metà fessura era stato parecchio complicato.
Niente di particolare per la discesa, anche se aveva incominciato una leggera pioggia, peraltro interrottasi presto.
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