Izoard

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Izoard

Messaggioda tacchinosfavillantdgloria » sab lug 22, 2017 6:58 am

DOMENICO QUIRICO
COL D’IZOARD
Dietro il tornante, in un passaggio aspro della salita dell’Izoard, nella solitudine abbagliante, nel silenzio raschiato appena dallo sfrigolio della catena, mi è apparsa davanti, all’improvviso una panchina, verniciata di verde, il sedile e la spalliera di legno. Forse l’unica in quei venti chilometri di salita. Una vera panchina: solitaria, pigra, malinconica. Di quelle che aspettano, pazienti e deluse, all’ombra di un platano o di una quercia, nella piazzetta di ogni cittadina e di ogni villaggio di Francia. Basterebbe, forse, quella panchina lassù, a duemila metri, sul colle leggendario del ciclismo, per dare testimonianza di una stanca civiltà provinciale, il segno preciso di un ordine antico e nobile che è la Francia. Invece era soltanto un invito al riposo, una segreta tentazione alla fatica del pedalare.

Eppure ero salito agilmente: fino a quel momento… La panchina mi ha fatto cadere addosso la stanchezza all’improvviso, come un cappuccio di lana. No, non sono stanco. Fermarsi vuol dire non ripartire, l’umiliante resa dell’imboccare la discesa del ritorno. Accorcio il rapporto di una unità e con uno sforzo doloroso mi strappo dalla tentazione. La strada monotona si allunga verso il vertice del colle a 2400 metri come un Calvario. Ho deciso di salire l’Izoard «en velò», alla vigilia del Tour, perché scalare le montagne in bicicletta non è solo sport: è un magnifico transito di dannazione dove lo spazio, guadagnato metro dopo metro, superficie dell’essere, ascolta battere il suo cuore, battere il tempo e non ne impallidisce. E la vetta è il punto dove lo spazio afferra il tempo e non lo lascia più fuggire.

La partenza
Per questo son partito presto da Guillestre dove ufficialmente inizia questo lato della salita, per non incontrare il peloton degli altri amatori come me; per ascoltare il silenzio della montagna. E infatti la strada, almeno per un po’, è ancora vuota e deserta.

Addio Guillestre con i tuoi chilometri ingannatori, quasi piani, ora entro nella valle del Guil, una gola stretta tra pareti fosche di roccia in cui in fondo scorre il torrente. E’ un silenzio caldo, un riposo denso di luce, un abbandono pieno di coscienza. La bicicletta, di fronte alle grandi scene della natura, ti offre straordinari impressioni di suono, ti pare di udire le voci del silenzio. Il ciclismo agonizza nelle città, gli appartengono la campagna i monti la provincia gli spazi. Il ciclismo non ha nome nei luoghi consacrati al football e al basket…

Tra loro ho sempre amato il «grimpeur», lo scalatore puro. Uomini piccoli, scuri, agili, febbrili, che sognano la salita come una liberazione, la aspettano, le vanno incontro come per un richiamo definitivo e irrefutabile. La montagna è la loro rivincita di uomini senza carne, di acrobati dell’ascesa. E’ l’unica occasione che hanno per rivoluzionare le gerarchie, i ruoli, le dipendenze della corsa. Se la perdono tornano nani. I belli del ciclismo Anquetil, Kubler, Cipollini soffrono le salite.

Mi è indifferente lo sprinter, brutale e temporaneo. Non mi esalta il passista tuttofare e lo specialista della corsa di un giorno. Hanno colli da torello, taglie da macchina pestasassi. Gli scalatori, Jiménez, Pantani, i colombiani, Trueba, Gaul, Bahamontes, quelli invece sono una specie letteraria.

Lo scalatore puro sa di Zola e di Verga, è dolorosamente verista, sputa sangue per staccare tutti in salita e poi in discesa il passista, pesante, strafottente, in due pedalate lo raggiunge e getta in polvere la sua fatica. Ridiscendere a valle per trovare il traguardo lo annulla, solo restare in altitudine, nell’aria rarefatta gli da forza e vita. Il ciclismo è in questa brutale metafora della vita, della politica, della storia: lo scalatore più del gregario è il vero proletario di questo sport popolare, dannato alla fatica di Sisifo di azzannare le montagne e poi perdere un Giro o un Tour in venti chilometri a cronometro o di discesa.

L’arena
L’Izoard non è la salita più dura del ciclismo, me ne accorgo salendola; ci sono qui intorno pendii più impietosi, erte tremende. Il Galibier per esempio o a un passo, sul versante italiano, il colle dell’Agnello, salita brutale, che ti contorce le mascelle nello spasimo dello sforzo, le labbra arricciate, gli occhi inferociti dalla fatica. Ma l’Izoard è interminabile, ti chiede nascosta capacità di ostinazione, volontà fredda e silenziosa. Perché ti lusinga ti inganna ti attira a sé, facendoti credere che sia facile domarlo, che i suoi pendii in fondo siano lievi. Mentre è lui, sempre lui che fissa il margine tra il difficile e il terribile. Per questo sull’Izoard si sono vinti e persi i Tour. Qui se l’avversario è in crisi diventi spietato, c’è un’aria di arena, di mattanza. Ho visto una foto del ’36: il belga Maes in fuga passa sulla vetta, ha occhi di lupo, la gioia crudele di chi sa che l’avversario sanguina. Il vinto è «le roi René», il francese Vietti. Al traguardo si inventerà un patetico raffreddore per giustificare il distacco. Aveva sbagliato rapporto, pensando di piegare la montagna con le sue leve…

Adesso ho lasciato l’ultimo villaggio, case vuote, silenziose come se fossero disabitate. Eppure ci sono auto e segni di vita. E’ come se gli uomini della montagna si nascondessero in attesa dell’arrivo del Tour di oggi quando la montagna intera sarà folla rumore auto e grida.

I pini fanno ancora un’ombra riposata e densa nel bosco umido e sonoro, pare una immensa grotta. La selva di abeti, attorno alla strada che sale ora con pendenze più forti, è tiepida cordiale e profonda come una donna. Non mi piace alzarmi sui pedali, vorrei sentire sempre il corpo e la bici, in coppia, sgominar l’aria, sbriciolarla con il movimento delle gambe come se fossero cosa sola.

La cavalcata di Bobet
Da qui iniziò, mi pare, nel 1953 la cavalcata di Louison Bobet, l’unico uomo tre volte primo sull’Izoard. Aveva già attaccato sul Vars, che anche oggi ne sarà il prologo faticoso, e aveva cominciato a tirar il collo agli avversari. Ma era sull’Izoard che aveva deciso di piantarli. Quanto bastava per arrivare in vetta con il distacco che l’avrebbe confermato per quello che era: il campione, il dio dei francesi, senza rivali senza nessuno né niente che gli potesse stare dietro. La sola cosa che interessa ai campioni: la folla gli urli le mani le braccia le strade le curve le salite, arrivare dove nessuno arriva e col tempo con cui nessuno riesce a farcela.

L’ho visto Bobet, nei cinegiornali del tempo, salire agile, composto, alzava la testa quel tanto per vedere il varco nel muro di folla, di gendarmi che faceva siepe sulla strada. Non vedeva volti, solo la fila di scarpe e poi di calzoni e sottane. Ha piantato i primi allunghi qui dove la strada dopo la «Maison du roy» svolta a sinistra e la pendenza sale all’otto e all’undici per cento. Allunghi, di curva in curva di rampa in rampa, come chiodi nella carne dei poveri cristi che inseguono, indietro, lenti e gocciolanti sudore come i secchi di una draga.

Ora ci siamo: un attimo di respiro, 500 metri, sulle rampe e sulle svoltate a forcina. E poi è la Casse Déserte. Il paesaggio si fa torvo, la pietraia di grigio calcare pare di ossami, qualche nube si appesantisce sulle cime. Non so perché la retorica degli aedi sportivi la chiama paesaggio lunare: la luna è una terra morta, qui la montagna è ben viva, una vita minerale ma possente, quasi urla una sua esistenza fatta di ghiaie gialle, guglie come altari a misteriose intangibili divinità della montagna. La strada è obliqua, tracciata da uno spillo. La rupe liscia dai due lati sale e scende implacabile, senza appigli.

Il capolavoro di Bartali
Qui fu la corsa capolavoro di Bartali nel ‘38. I suoi rivali erano belgi, Vervaecke e Vuissers, detto il calvo. Sì è vero: le cronache francesi dicono che nell’affanno dell’inseguire i due cadono, bucano. Ma quel che conta sono le pedalate tremende del toscano, li attacca implacabile sul Vars, li finisce sulla Casse Déserte. La banda degli chasseur des Alpes è salita sul colle con gli ottoni, suona a pieni polmoni per l’uomo in azzurro che passa come una tromba di uragano e si getta nella discesa verso Briançon. Ah, les italiens!. Cinque italiani nei primi sei posti! Le squadre sono nazionali, si va al Tour come alla guerra Ancora due anni e su queste montagne scaveranno trincee, si combatteranno battaglie vere... Ecco sono in cima. mantenere il controllo del respiro, trovare il giusto rapporto. Sul colle non c’è nulla, una stele che ricorda i genieri militari che costruirono la strada, qualche transenna per il provvisorio traguardo di oggi che poi sparirà, una baracca in legno che vende l’umile mercanzia dei souvenir ciclistici.

Nelle gazzette sportive la montagna è «domata», «vinta». Retorica. E’ l’Izoard che, se vuole, se tu hai umiltà ti accetta, ti lascia venire a sé.

Pedalatori saluti
TSdG
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