Sella Quintino

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Sella Quintino

Messaggioda Danilo » dom set 17, 2017 3:05 am

«Possiamo venderci tutto tranne questa». Così ha detto il ministro prendendo il posto del primo inquilino del Tesoro, paladino del rigore


Si sarebbe portato via la scrivania, Quintino Sella. Ecco cosa avrebbe fatto se avesse assistito all’episodio più stupefacente avvenuto dentro il «suo» ministero dell’Economia e delle Finanze: l’irruzione pochi mesi fa delle Fiamme Gialle costrette a mettere fine con i sigilli a una maxi evasione nel tempio stesso della lotta gli evasori.

Erano decenni che una certa area del palazzo affidata al Cral era stata trasformata in un bazar dove si vendeva di tutto senza l’emissione di un solo scontrino fiscale sotto gli occhi degli stessi finanzieri. Ed erano tredici anni, dal lontano ‘96, che il Circolo ricreativo aziendale non pagava l’affitto ai «padroni di casa», cioè i cittadini italiani e il loro ministero. Fino al punto di accumulare debiti per 2 milioni, 326.070 euro e 89 centesimi. Più altri 445.501.041 dovuti dalla Mi.Te.Bi., la società che gestiva il supermercato interno con un fatturato di oltre 300 mila euro. Per un totale di 2 milioni 771.572 euro e spiccioli.

Imbarazzante. Tanto più che il contenzioso, deflagrato solo dopo una spettacolare incursione delle «Iene» di Italia1 che aveva reso impossibile lasciare le cose come stavano, andava avanti dal 1986. Quando il ministro dell’epoca, Giovanni Goria, per avere quei soldi del canone, aveva dovuto addirittura fare causa al Cral. Causa andata avanti per 17 interminabili anni, finché il giudice nel 2003 aveva dato ragione al sindacato. Senza che il ministero, chissà se solo per una dimenticanza, impugnasse la sentenza.

C’era di tutto, nell’agorà sindacal-ministeriale, prima della stretta. Il famoso supermercato, un’agenzia di viaggi, una profumeria, una palestra per il body building. E c’era chi rimpiangeva i vecchi tempi, quando il dicastero ospitava perfino un cinema: il Radio City. Per un po’ i responsabili del Cral hanno sperato di chiudere con un accordo bonario. Tentativo fallito. A quel punto, non sono rimasti che i sigilli. Come l’abbiano presa i dieci sindacati interni, ve lo lasciamo immaginare.

Quel suk, in verità, non era l’unico. Quando scoppiò il caso, Enrico Costa, figlio dell’ex ministro Raffaele noto per mille battaglie contro gli sprechi, denunciò che i dicasteri dove si poteva fare shopping in orario di lavoro erano almeno nove. «Si trova di tutto — spiegò al cronista del Giornale Stefano Filippi —: scarpe, vestiti, bigiotteria, profumi e prodotti di bellezza, biancheria intima e per la casa, a volte anche alimentari». Un delirio di bancarelle, con posti «affittati» a commercianti esterni e giri d’affari da capogiro. Inaccettabile. Soprattutto qui, dov’è il motore della macchina che dovrebbe perseguire gli evasori. E dov’è appunto la scrivania dell’uomo che forse più di tutti sperò di fare dell’Italia un Paese serio.

Ci resterebbe di sasso, Sella, a leggere di Flavio Carboni. A scoprire che un secolo e mezzo dopo ci sono ancora italiani così indifferenti agli scrupoli morali da maneggiare milioni sulle pale eoliche senza presentare manco la dichiarazione dei redditi. Perché questo risulta all’Agenzia delle entrate: il faccendiere sardo che vendette al Cavaliere la lussuosa villa Certosa ed è al centro dello scandalo P3, non dichiara nulla al fisco dal 2002. Zero carbonella.

Non ci dormiva la notte, quel ministro delle Finanze passato alla storia come colui che pilotò il Paese verso il pareggio di bilancio, davanti alla protervia dei furbi. Denunciava in Parlamento come un deputato della sinistra si fosse vantato «di non avere mai votato un’imposta». Tuonava che «se tutti osservassero lealmente le leggi finanziarie esistenti, ce ne sarebbe più di quello che occorre per l’equilibrio». Invocava punizioni esemplari: «Chi froda l’erario non commette egli un furto a danno degli altri suoi concittadini?».

Lo dichiarò, ricorda il libro di Pier Luigi Bassignana «Quintino Sella. Tecnico, politico, sportivo» edito dal Capricorno, fin dall’esordio in Parlamento dopo la nomina, nel 1862: «Occorrono imposte, imposte, nient’altro che imposte». Un pazzo, dirà qualcuno. Benedetto Croce, al contrario, pensava che lui e la destra storica fossero «da considerare a buon diritto esemplari per la purezza del loro amore di patria che era amore della virtù, per la serietà e dignità del loro abito di vita, per l’interezza del loro disinteresse…»

Giulio Tremonti è affezionatissimo alla leggendaria scrivania di Sella. Quando ci si sedette nel 2001 disse con rispetto quasi religioso: «Privatizzazioni, liberalizzazioni, vendite: nello Stato c’è molto da vendere. E’ quello che noi vogliamo fare. L’unica cosa che non possiamo vendere è la scrivania di Quintino Sella. Se non centriamo il pareggio nel 2003, io non la occuperò». Quasi dieci anni dopo, su quella scrivania tiene un barattolo di pomodori Cirio che usa come portapenne. Il cimelio della battaglia sugli scandali Cirio e Parmalat finita con le dimissioni del suo nemico, l’ex governatore della Banca d’Italia Antonio Fazio.

Per capire com’è diventata l’Italia di oggi devi partire da lì, da quella scrivania. Dall’abisso che separa quella destra e questa destra. Dalle differenze fra quella sinistra (che applaudì a Marco Minghetti il giorno in cui invocò «la diminuzione di una quantità strabocchevole di impiegati» statali) e questa sinistra. Dal contrasto tra la devozione (a parole) verso il mito dell’integrità morale di Sella e le risatine che accompagnerebbero oggi la sua decisione di liberarsi dell’azienda tessile di famiglia per non offrire neppure il sospetto di un conflitto di interessi. Dalla distanza siderale che c’è oggi fra la bulimia di consenso plebiscitario e certi suoi discorsi di ieri. Come quando spiegò: «Non tengo punto alla popolarità; per me prima di tutto credo che bisogna fare il proprio dovere e l’interesse dello Stato». Posizioni che gli avrebbero guadagnato feroci vignette e un irridente epigramma sulla tomba: «Attenzione, o pellegrino / A quest’urna non ti accosta... / Se si sveglia l’inquilino / Paghi subito un’imposta!»

Quasi 150 anni dopo il primo insediamento alle Finanze dello statista avvenuto nel 1862, quando aveva solo 34 anni ed era così giovane che l’anno successivo sarebbe riuscito a scalare (primo italiano in assoluto) la vetta del Monviso, l’evasione fiscale non è diminuita per niente. Anzi. Diversamente non sfuggirebbe al Fisco ogni anno (stime interne e internazionali) una massa di imponibile di 300-350 miliardi di euro, con tasse evase per almeno un centinaio di miliardi.

Numeri inaccettabili. Disse Barack Obama nel suo storico discorso ad Accra, in Ghana: «Non c’è nessuna voglia di investire in un luogo in cui il 20% della ricchezza viene sottratto al fisco». Parlava di certi Paesi africani. Da noi la situazione, sotto questo profilo, è ancora peggiore. E ancora più irritanti certe tabelle, come le dichiarazioni dei redditi medi (prima della grande crisi) di elettricisti e idraulici (26.905 euro), fabbri (29.544), tappezzieri (22.611), meccanici (20.592) e così via. E ancora più insultanti certe storie. Come quella di un evasore di Brescia che avendo denunciato 15.500 euro di reddito lordo, risultava aver comprato un’auto da 80 mila, speso 6.500 per il circolo del golf e altri 6.500 per un centro benessere. Oppure di un cittadino di Lecce che con una dichiarazione da 11 mila euro lordi ne pagava 30 mila per la rata del leasing della barca. E via così, decine e decine di casi…

Possibile che ci siano 94mila yacht sopra i dieci metri ma solo 75.689 contribuenti su 41 milioni (uno su 542) con imponibili sopra i 200mila euro? E possibile che di questi l’81,6% sia dipendente o pensionato? Per non dire dei patrimoni che non solo sfuggono al fisco ma vengono accumulati in maniera illecita e stravolgono le regole della sana amministrazione pubblica.

«I potenti cominciarono a trasformare la libertà in licenza. Ognuno afferrava quello che poteva, strappava, rubava…». Sembrano scritte ieri mattina, queste parole di Sallustio. E ieri mattina sembrano scritte le pagine di Luigi Pirandello, nel libro «I vecchi e i giovani», sullo scandalo della Banca Romana: «Dai cieli d’Italia in quei giorni, pioveva fango, ecco, e a palle di fango si giocava; e il fango s’appiastrava da per tutto, su le facce pallide e violente degli assaliti e degli assalitori, su le medaglie già guadagnate su i campi di battaglia (che avrebbero dovuto, almeno queste, perdio! esser sacre) e su le croci e le commende e su le marsine gallonate e su le insegne dei pubblici uffici e delle redazioni dei giornali. Diluviava il fango; e pareva che tutte le cloache della Città si fossero scaricate e che la nuova vita nazionale della terza Roma dovesse affogare in quella torbida fetida alluvione di melma, su cui svolazzavano stridendo, neri uccellacci, il sospetto e la calunnia ».

Non si può capire l’Italia di oggi senza la scrivania di Quintino Sella, non la si può capire senza rileggere Pirandello e indietro ancora Sallustio. Anche se Carlo Alberto Brioschi nella sua «Breve storia della corruzione» ricorda che lo storico romano, autore di cronache durissime sulla congiura di Catilina («I capi dei partiti al potere profanavano e devastavano tutto; nulla premeva loro, nulla tenevano per sacro. Finché sprofondarono nell’abisso che si erano preparati con le loro mani ») predicava bene ma razzolava male se oltre a essere espulso dal Senato per indegnità morale finì a processo per come aveva maramaldeggiato nella gestione della provincia affidatagli dell’Africa Nova e «dovette ricorrere alla protezione di Cesare, il quale intervenne presso i giudici in favore dell’amico tanto che il tribunale alla fine lo assolse». Di più: «Il denaro da lui estorto fu impiegato in parte per comprare splendidi giardini attorno alla propria villa romana».

Ora, è difficile sapere se Quintino Sella e gli altri che fecero la scelta conoscessero i precedenti. Certo è che l’asse portante dello Stato italiano, subito dopo la conquista di Roma, fu impiantato qui. Su quella che era la via Pia e che da Porta Pia scendeva e scende, oggi con il nome di via XX Settembre e poi via del Quirinale, verso piazza del Quirinale. Esattamente nell’area in cui sorgevano i giardini sallustiani frutto delle malversazioni di due millenni prima. Giardini da cui il rione ha preso il nome: Sallustiano.

Scrive nella sua «Enciclopedia di Roma» Claudio Rendina che l’idea era quella di «riunire lungo la via Pia tutti i ministeri, per farla diventare l’asse amministrativo della nuova capitale». E ciò «determinò la costruzione del Ministero delle Finanze e di quello della Guerra lungo la strada, mentre tra piazza San Bernardo e porta Pia furono realizzati i ministeri dell’Agricoltura e foreste, dei Lavori pubblici, dei Trasporti, del Lavoro e del debito pubblico». Una scelta forse sensata sotto il profilo governativo, disastrosa sotto quello paesaggistico: «Questa parte della città, che era riuscita a mantenere un aspetto tranquillo e pittoresco, grazie all’inserimento perfetto di chiese e palazzi nell’ambiente circostante, ancora di tipo campestre, fu radicalmente trasformata. Scomparvero uno per uno i viottoli che s’inerpicavano tra orti e giardini verdeggianti… »

Un secolo e mezzo dopo, il «Fabulous Mile» è rimasto il cuore del potere italiano. Quello «vero». E chissà se Berlusconi, col suo richiamo a Mussolini («Nei suoi diari ho letto recentemente questa frase: "dicono che ho potere, non è vero, forse ce l’hanno i gerarchi ma non lo so. Io so che posso solo ordinare al mio cavallo di andare a destra o di andare a sinistra e di questo devo essere contento"») non si riferisse anche a questo. Qui è il ministero dell’Economia dove, nella Sala della Maggioranza, si tennero i primi Consigli dei ministri dopo il trasferimento della capitale e dove è stata decisa l’ultima manovra anche a dispetto della riluttanza del Cavaliere per interventi come la fattura telematica. Qui sono l’ambasciata inglese in Italia e quella francese presso la Santa sede (forza dei simboli: le due potenze che più incisero sul processo unitario), qui i ministeri dell’Agricoltura e della Difesa (fatto accorpando due conventi dopo mille battaglie perché non se ne volevano andare né le suorine né un combattivo ortolano), qui la Cassa depositi e prestiti, la Sede romana della Banca d’Italia, gli Uffici del demanio, la Corte costituzionale (nel palazzo inizialmente destinato agli Esteri) e soprattutto il Quirinale.

Quelli che sono cambiati, a parte ovviamente la staffetta fra i re dei Savoia e i presidenti repubblicani, sono i numeri. Se l’immenso edificio dell’Economia è rimasto grosso modo come lo descriveva una guida del 1925 che invitava i turisti a rendersi conto di persona di quanto fosse penoso l’ambiente («Chi vuol farsi un’idea dell’immensità della macchina burocratica può infilare una delle scale d’angolo e fare una passeggiata a un piano qualunque negli scuri e squallidi corridoi. L’uniformità desolante delle centinaia di camere polverose d’ufficio…») i numeri sono cambiati completamente. Basti dire che il ministero, che anche ai tempi di Sella era quello con più dipendenti, ne aveva 1.271. Oggi il Tesoro e le strutture decentrate che un tempo facevano capo alle Finanze, ne hanno insieme più di 70 mila. Quanto ai «ministeriali » nel loro complesso, prima del trasferimento della Capitale da Firenze erano in tutto 4.396. Oggi più o meno 180 mila. Un numero quaranta volte superiore. Moltiplicazione comunque inferiore a quella dei costi della Camera: da 497 mila lire (circa 2,2 milioni in valuta attuale) del 1861 a un miliardo di euro. Certo, fino al 1913 i parlamentari non avevano lo stipendio e le paghe non erano sicuramente paragonabili a quelle del 2010. Ma nel 1861 il parlamento occupava due palazzi. Un secolo e mezzo dopo, trenta.

Non è solo su questo, però, che i rigoristi della Destra Storica avrebbero da ridire. E’ accettabile, con questi chiari di luna, che esista ancora un «premio produttività» (legato in teoria ai risultati della guerra all’evasione: sic) che pochi anni fa arrivò a distribuire in media ai dirigenti 55 mila euro e viene tuttora assegnato in base a una verifica collettiva, un po’ come gli esami di gruppo che si facevano all’Università sessantottina? Che i dirigenti vengano premiati o puniti (immaginate voi la severità di giudizio…) sulla base dell’ «autovalutazione»? Che esista un incentivo che di fatto è riferito alla semplice presenza sul posto di lavoro? Mah…
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Re: Sella Quintino

Messaggioda gigiDR » dom set 17, 2017 4:05 am

scrive.troppo.
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Re: Sella Quintino

Messaggioda MarcoS » dom set 17, 2017 16:09 pm

1) ma è danilo l'autore?

2) ci sarebbero diverse cosette opinabili in questo lungo sproloquio ma richiederebbero un post altrettanto lungo, se non di più. e decisamente no go cojoni

3) quintino sella a mi me fa vegnere in mente sopratuto el plebiscito truffa del 1866
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Re: Sella Quintino

Messaggioda VECCHIO » dom set 17, 2017 18:41 pm

La banca Sella è una sua idea, o ha il nome?
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