da Ansia Kammerlander » mar ott 31, 2006 0:44 am
(è una storia d'amore, i rudi alpinisti non la leggano)
Il treno corre, i sobbalzi sui binari da ore vanno a ritmo con il mio respiro agitato. Non mi piace raccontare bugie, non sono capace, ma per essere qui ne ho inventata una goffa, assurda, una di quelle bugie che meriterebbero una punizione divina (e forse l?avranno).
Entriamo in stazione, ho il naso incollato sul finestrino. Ho paura di non vederti, di non riconoscerti. E all?improvviso eccoti lì sulla banchina. Scendo, mi vieni incontro, mi hai riconosciuta anche tu. Non so come salutarti, non so cosa dirti, uno strano blackout dopo dieci mesi di parole che entravano sempree più impetuose nella mia e nella tua posta. Parole sulle quali abbiamo camminato come equilibristi, terrorizzati all?idea che quel filo lungo centinaia di chilometri si rompesse, o che si potesse cadere di sotto, facendoci del male. All?inizio facevamo anche un po? ridere, quando tu mi davi del lei, scrivevi grazie-prego-molto gentile, e io ti credevo un vecchio signore molto pignolo. Dopo due settimane non c?era più nulla di quella cortesia ingessata, ma un sacco di domande. Chi sei, cosa fai, come sei. Un saluto, tutte le mattine. Un saluto tutte le sere. E poi la scoperta di avere bisogno di questo saluto. Se parti come faccio. Se non mi scrivi mentre sei via ti spezzo le braccine. Sei cattiva. No, sei tu che sei stupido. Pensavo ti fosse caduto l?aereo e per quello non mi avevi scritto. Pensavo che fossi caduto dalla moto e per quello non mi avevi scritto.
E la paura e lo sgomento di quello che stava succedendo. Non possiamo, lo sai che non possiamo. Non ti voglio più sentire, non si può vivere così, è assurdo. Va bene, ti prometto che ci incontriamo, ma poi giura che non finisce, che non ci perdiamo, è troppo bello quello che abbiamo io e te. Ho buttato la tua foto, perché ero incazzata. Ma la pianti di buttare le cose che ti mando? Sei una brutta peste, sei un vulcanetto, adesso vado in posta....
E intanto con le tue mani leggere, senza mai toccarmi mi frugavi dentro e riuscivi a farmi dire verità mai confessate prima. Mi piaceva e mi terrorizzava: ho capito solo molto dopo che non mi avresti mai fatto del male. Ti obbedivo, io che non obbedisco mai a nessuno. Un giorno in montagna ho fatto dieci chilometri sotto la pioggia, perché tu volevi un messaggio per essere sicuro che ti stessi pensando. Come se fosse stato possibile il contrario, come se ne non fosse stato vero che non pensavo ad altro. Correvo sotto il temporale con il battito a mille e mi sentivo deficiente e felice.
I nostri giochi assurdi. Facciamo che io sono il maestro e tu la scolaretta, quindi stai attenta. Facciamo che tu eri un?ostrica surgelata e io ti dovevo aprire. Facciamo che tu sei una pecora stupida su un?isola della Patagonia.
Ora sei qui davanti a me. E io mi rendo conto che so che film ti piacciono, cosa leggi, cosa sogni, come sono le tue giornate nere, ma non so che odore hai, se strizzi gli occhi quando ti spaventi, non so come cammini. Non so come salutarti, dopo tutto quello che ci siamo detti al riparo di uno schermo.
Mi passi un braccio attorno alle spalle, mi guidi tra la folla. Fatto buon viaggio? Sì, grazie. In metropolitana sento la tua gamba contro la mia e penso che ci sei, esisti, sei anche caldino nel freddo della sera d?inverno.
Al ristorante sembriamo due giocatori di scacchi. Io guardo te e tu guardi me. So che sei attento ai piccoli gesti, e mi chiedo cosa ti dica di me il mio modo di prendere il cestino del pane o di girare l?insalata. Questo mi paralizza al punto che l?insalata me la giri tu, un po? divertito. Hai degli occhi bellissimi.
Torniamo a casa. Accendiamo la televisione, seduti sul divano. Distanza di sicurezza, venti-trenta centimetri. Le immagini scorrono sullo schermo, ma non le vedo neanche. I sentimenti di questi mesi, attrazione e terrore, provocano un invisibile uragano. Forse muoio d?infarto sul divano. Forse resto qui tutta la notte e poi vivo tutta la vita nel rimpianto. Forse non ti piaccio e ci siamo raccontati un mucchio di fesserie. Cosa si dice in queste situazioni? Mi viene solo una frase disperatamente stupida. Che ti eri descritto castano e ti trovo scuro scuro. Mi chiedi se ho delle altre lamentele. E non so come le nostre dita si trovano vicine, con l?indice ti sfioro il pollice, poi il fianco. E tu scivoli sul divano, gli occhi chiusi di chi aspetta. Sapessi come sarebbe più facile, se non ti avessi lasciato avvicinare così tanto. Ti accarezzo piano la pancia, ti bacio la pelle dove sei liscio, e poi più giù, mentre tu trattieni il fiato. Ti sollevi, mi prendi per mano e mi dici ?Andiamo di là?. Le tue dita sono intrecciate alle mie, in una stretta forte. Lo vuoi? Sì, lo voglio. Dimmelo. Lo voglio.
Il tempo prende una strana accelerazione e tu ti trasformi in un lupo avido, quasi feroce. Ma io non ho più paura. Facciamo che tu eri un lupo e io una pecora e tu mi mangiavi. È un gioco bellissimo, anche se fa male e ci lascia sfiniti.
Adesso cerco di dormire. Non posso, perché tu continui a chiedermi a che penso. Non penso a niente, ti dico. Non è possibile che tu non stia pensando a niente, sento le rotelle del tuo cervello che fanno frrrrrrrrrrrrrrrrr. Dimmi che cosa pensi, lo voglio sapere. Come faccio a dirti cosa penso? Penso che tra poco è mattina e non voglio. Penso che sono un po? innamorata di te, anche se è vietato. Penso che ti vorrei chiedere che cosa provi tu, ma la domanda non è ammessa e io sono ligia ai regolamenti e tanto non mi risponderesti. Penso che è meglio godersi il qui ed ora, il tuo braccio che mi tiene stretta. Il sonno è leggero, agitato. Hai mal di schiena. Ti massaggio un poco. Smetti di lamentarti e ti viene la voce da lupo: non ti fermare. Facciamo di nuovo l?amore poi dici: oh c***o, dobbiamo alzarci, ma così presto dovevi partire?
Colazione a testa bassa. Non so dove guardare. Ho paura a guardarti negli occhi, perché ancora non li so leggere e sei così bravo a fare la sfinge. Ho paura a pensare che è tutto finito. Non sono più capace di parlarti. Non sono capace di immaginare come si può andare avanti, adesso che abbiamo scoperto che io esisto e tu esisti. Non si potrà più ridere, non si potrà più scherzare. Guardo le tue mani piene di lentiggini e penso che è l?ultima volta che le vedo. Ti scusi perché il tè fa schifo. Mi accompagni in stazione trincerato dietro un paio di incredibili occhiali neri, incongrui nel mattino invernale. Un abbraccio rigidissimo. Facciamo che tu eri un?ostrica surgelata e io ti dico addio per sempre.
Salgo sul treno. Per sempre. Finito. Finito per sempre. Questo dicono i sobbalzi. Mi addormento. Non sto male, è come se mi avessero fatto l?anestesia ai sentimenti: ma penso che mi sveglierò e starò da schifo. Invece mi sveglia il telefonino. Sei tu. Come stai? Stai bene? Mi scrivi, giura che mi scrivi.
Lo vedi? Ti scrivo quasi ogni giorno anche adesso, dopo tanti anni. Ho perfino imparato a dirti che ti voglio bene, e l?hai imparato anche tu. Forse hai ragione quando mi dici ridendo che io penso troppo e non dimentico niente.
ALLEGRIA
Faceva freddo. Il vento
mi tagliava le dita.
Ero senza fiato. Non ero
stato mai più contento.
(Giorgio Caproni)