Scorrendo la letteratura alpinistica si puo' fare una facile osservazione: le strutture della montagna non sono amate e godute nella loro forma quando sono affrontate direttamente.
I canaloni ghiacciati, i profondi camini, le "grandi pareti levigate" appaiono belli finche' sono ammirati da una certa distanza.
Raramente possiamo leggere descrizioni appassionate delle minute strutture che permettono il proseguimento della scalata.Chi ama mettersi in vista attraverso il racconto delle proprie imprese, anche se non arriva alle definizioni limite di "placca liscia" e di "strapiombo quasi insuperabile" si tiene almeno a termini che stanno fra il disprezzo e la maledizione.
I monti, cioe', che visti da lontano appaiono belli e desiderabili, affrontati da vicino perdono ogni aspetto gradevole, e sembrano diventare nemici infidi o, addirittura, trappole mortali.
Io invece amo profondamente i generosi appigli a cui ogni giorno noi alpinisti affidiamo fiduciosi la vita; mi appoggio con soddisfazione alle pareti, magari viscide o bagnate, dei profondi camini; incastro volentieri la mia spalla o il mio fianco nelle fessure cosidette svasate o "troppo strette"; la struttura rocciosa osservata di passo in passo, mi appare come un disegno fantastico: certamente il piu' bello che mi sara' permesso di godere; ogni rilievo della roccia e' una scultura che--a differenza dell'opera d'arte formale e banale--invita la tua fantasia e la tua intelligenza e propone un'azione conseguente.
La mia Montagna, in tal modo, diventa la realizzazione di un sogno antico dell'uomo: scoprire un rapporto non puramente concettuale con la struttura del mondo che lo circonda.
BEPI PELLEGRINON da "Un alpinismo possibile".1969.